mica, una performance - più o meno sofisticata, più o meno greve - riempiranno quel vuoto - scavato nel copione dal copione stesso. La differenza etico-strutturale tra la televisione e il libro mi pare questa. La cronaca trecentesca del martirio di fra' Michele Minorita è anonima, come aspira all'anonimato Flaubert in quanto testimone del martirio di Emma Bovary. Ma quando, durante una partita di calcio, un giocatore cade e si fa male, subito compare lo stacco pubblicitario. La televisione rovescia il libro. È il mondo del soggetto ipertrofico, del soggetto atrofizzato - o atrofizzato in quella funzione suprema, in quel circuito fatale: espressione - consumo. Se si vuole c'era stato un passaggio intermedio, ottonovecentesco: il desiderio di testimonianza era diventato così forte (così romantico) da rendere necessario che il cronista e il martire fossero la stessa persona; ma, con il tempo, si rese superfluo che vi fosse un martire. In tv non v'è autore-attore che non sia, come s'è detto, commedia; non v'è persona che non sia, per definizione, assente: un immenso, illimitato, umoristico cosmo senza martiri, senza cronisti, senza cronisti-martiri; senza, infine, alcun bisogno dell'una e dell'altra cosa. Nel mondo senza testa, nel mondo tutto estetico, non v'è alcun bisogno che la bellezza coincida con la verità. Lo spettacolo prevale sul racconto; insomma, per usare (ancora) delle odiose categorie «romantiche», l'estetico sull'etico. Il libro dentro la televisione è un vecchio gioco. Se lo si prende alla lettera, il libro è come, ad una lettura immediata, l'America per Colombo nel Nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo di Lope de Vega. Nel testo di Lope, tutta la partita viene disputata, com'è ovvio, nei termini tradizionali, che allora erano addirittura aurorali: i tradizionali termini della modernità. Scoperta, come dice il titolo; e conquista, come si evince dalla vicenda (e dalla storia che essa riflette). Lope pensava che esistesse un 183
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