pravvissuto: in interiore homine; o sarò, più semplicemente, un'anima bella, con la segreta speranza di aver lasciato un posticino caldo, nel fondo del mio cuore, o della mia anima, per lo spirito? Vale a dire: potrò continuare a dispiegare la mia energia in tutta la sua potenza; o dovrò accontentarmi di essere come gli altri, limitando la mia diversità al privilegio sociale? L'intellettuale (il libro) per sua antica vocazione e inclinazione è totalizzante, totalitario, vorace. Egli vuole tutto. In fondo, rinunciare allo spirito, come privilegio autentico, è più difficile che ogni altra cosa. La vera opposizione, o forse auspicata complementarità, è tra televisione e cultura, o spirito. Eppure diciamo libro. Non diciamo mai: cinema, o teatro-gli altri universi della finzione. Non diciamo cinema perché il rapporto di sudditanza del cinema, il rapporto di servizio del cinema-Golia nei confronti del suo David-televisione è chiaro da sempre, si può riassumere, appunto, con questa metafora biblica. Per quanto riguarda il teatro, esso vive in un museo, non ha più una vita, o vitalità, autosufficienti, autonome. L'unica antitesi resta il libro. Ma per capire la natura di questa antitesi, occorre capire, io credo, di che libro stiamo parlando. Forse, non parliamo del libro in generale, del Libro di Mallarmé - per intenderci. Il libro di cui parliamo, in verità, non è né il libro-documento, il libro che gravita tutto dalla parte del suo referente, la realtà, per le stesse ragioni per cui non ci poniamo neppure il problema (teorico, ontologico, di codice linguistico) del rapporto tra televisione e giornalismo. Sono la stessa cosa - o quasi la stessa cosa: quel plusvalore, o quell'eccedenza, quell'«in più», quel supplemento, che è la recitazione (un giornalista che parla recita più di un giornalista che scrive). Il libro di cui parliamo non è neppure il romanzo. Mi è già capitato di fare l'esempio di «Un giorno in pretura», le due puntate della trasmissione che avevano per pubblico 179
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==