Il piccolo Hans - anno XXI - n. 83/84 - aut./inv. 1994

Il secolo appena nato, il diciottesimo, allunga le sue radici nella tipologia culturale del precedente, e ne consegue nell'immaginario messo in opera nella pittura di genere una nuova attenzione alla materia, non realista né spiritualizzata, piuttosto spietrata dalle sue forme, scaraventata nel gorgo del tempo, a divenire fluida, sciolta non già dall'anelare altro dell'anima ma per sua stessa inconsistenza. L'occhio che il genere richiede al paesaggista, l'occhialino insomma che dovrà inforcare il committente, è un occhio che si spinge di gran lunga innanzi nella fuga del tempo, cogliendo la realtà nel suo fondo sdrucciolevole e astraendone un attimo qualsiasi, non già la grande impresa, l'evento eccezionale, ma un frammento della successione, fra infinite cune e sepolture, scelto con quello stesso impuntare di piedi che risuona nel richiamo quevediano, «jAh de la vida!», cui dispietato nessuno risponde. Vi è l'affresco sopra descritto, e una pletora di grandi tele e quadretti di paesaggisti di rovine, nell'incipit di una delle dolenti e celeberrime poesie metafisiche di Quevedo: jFue sueflo ayer; maflana sera tierra! jPoco antes, nada; y poco después, humo! E una sorta di fumo, difatti, uno sfumare impregna questi paesaggi in luogo di ogni fenomeno atmosferico: non v'è tempesta o sereno che non svapori in una nebbia turchina d'indistinto, dove fluisce il grigio delle pietre, il verdino e il giallo delle frasche e il tenue sbiadito delle vesti con le quali si macchiano di vita gli affrettati corpi umani. All'occhio il genere richiede di accelerare, di forare l'immobilità figurativa non nell'illusione del movimento delle corse sospese di uomini e cose, ma nel tempo lungo, nell'arco tutto della sua esperienza esistenziale di camera delle visioni, e oltre, nella grande orbita sovrindividuale di cui tutt'intero quest'arco è solo corda. E se al cielo pertanto si chiede di figurare non 10

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