Il piccolo Hans - anno XXI - n. 82 - estate 1994

Kant stremato è un personaggio autobiografico e, come tale, ci racconta la storia di un altro: di de Quincey, appunto. Sfogliamo quelle pagine e fermiamo lo sguardo sulle righe in cui l'autore, squarciando il velo dell'autobiografia, scopre una verità che egli non sospetta di offrire al suo lettore. Kant ha preso l'abitudine di bere sovente una tazza di caffè. Gli piace, fa parte dei rituali capricci della vecchiaia: di un'illustre decadenza. De Quincey si rende conto di contraddirsi? Pare di no, perché se così fosse scriverebbe parole diverse a proposito delle divagazioni di Kant medesimo sul verbo essere, anzi sul futuro del verbo essere. La scena è la seguente. Kant all'improvviso sente il desiderio di bere il caffè. Immaginiamo il servitore presso un fornelletto sempre acceso, pronto per servire la bevanda al padrone: perché Kant vuole il caffè sull'istante, non vuole aspettare. Quell'impazienza e quel volere il caffè tutt'al più in un attimo rivelano che la coscienza del filosofo è desta e vigile. Se egli chiedesse il caffè e subito se ne dimenticasse, la cosa non avrebbe nessun valore filosofico, e Kant sarebbe davvero quel vecchio malato che de Quincey descrive. Ma de Quincey ci dà armi sufficienti per confutarlo, ci fa sapere che il grande vecchio mette in contraddizione quel volere il caffè sull'istante e una riflessione. A chi gli dice che il caffè sarà pronto in un attimo, egli ribatte osservando che il verbo essere è coniugato al futuro. E conclude che l'uomo non è mai felice, ma lo sarà, sempre lo sarà. La filosofia lo assiste fino all'ultimo e la vecchiaia e la malattia acuiscono il suo sguardo. Avrà mai sull'istante il suo caffè il professor Kant? Sarà mai felice l'uomo? Nel verbo essere al futuro c'è la storia di quelle superstizioni volontarie di cui parla il nostro René. C'è anche la spiegazione di quel suicidio in forma di menzogna consistente nel vivere facendosi immagini di futuro felice. No25

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