Il piccolo Hans - anno XXI - n. 82 - estate 1994

bile la seconda interpretazione: i santi e i beati, meglio che ad agricoltori che sparsero il seme della parola divina, sarebbero paragonati a terre disposte a ricevere la buona semenza: questa, come nella parabola evangelica, rese il cento per uno, e ora, nella città di Dio, ogni santo è come un'arca in cui si addensa («soffolce») il seme moltiplicatosi nelle spighe. Diciamo piuttosto che se il tono del canto qui sembra abbassarsi, questo abbassamento ha pure una sua ragione: ne abbia Dante avuto chiara coscienza, ovvero abbia obbedito al suo istinto di poeta, parènesi e didascalia contribuiscono a quella che si potrebbe chiamare «equilibrio estetico». In questo oceano di suoni e di luce che è il Paradiso, in cui le onde succedono alle onde, ci sono, e ci devon essere, anche le pause: durante le quali, mentre un'onda si va affievolendo alla riva e l'altra si gonfia pronta a scrosciare, l'orecchio del lettore si riposa e si dispone a ricevere la nuova effusione di gaudio poetico. Il lettore sa già che dopo il trionfo di Cristo e di Maria lo aspetta nel prossimo canto quello degli apostoli e del primo pontefice. Alla fine del canto XVIII, Dante attribuì a papa Giovanni XXII una disdegnosa noncuranza verso il povero pescatore di Galilea a cui Cristo affidò la sua Chiesa. Come ha notato Alessandro Casati, la passione partigiana non lasciò vedere al poeta quanto di virtù personale, di dottrina teologica e di fervore apostolico era in quel pontefice, reo soprattutto, ai suoi occhi, per aver condannato i francescani estremisti, i così detti «spirituali», e impinguato l'erario papale. A quell'allusione risponde in questo canto l'accenno all'oro, di cui gli apostoli non si curarono. E la prossima apparizione del Pescatore, in tutta la sua maestà di vicario di Cristo e custode del Paradiso, è annunziata con quelle rime regali e imperiali -vittoria, gloria - di cui poi abuserà la poesia cortigiana, ma che qui rifulgono come le gemme di un 163

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