Il piccolo Hans - anno XX - n. 79/80 - aut./inv. 1993-1994

Il pathos della grande letteratura Intervista ad Harold Bloom /. Crede che la narrativa, o la poesia, potrebbero mai spegnersi completamente? B. Mi viene in mente quel grande tropo di Stevens in "The Auroras of Autumn", quando dice dell'«ultimo ornamento di una grande ombra». C'è sempre la possibilità di un ornamento ulteriore. Sembra l'ultimo, e poi si scopre che non lo è - una volta ancora, e poi una volta ancora. Gli si sta sempre dicendo addio, sta sempre dicendo addio a se stesso, e poi resta. Ai vecchi tempi, quando presentai John Ashbery a Yale in occasione di un poetry reading, ascoltai per la prima volta "Wet Casements". Come mi entrò nel cuore, fin dai primo momento! Quando la recito dentro di me e ritorno col pensiero all'esperienza originaria dell'udirla dalla voce di lui, mi è davvero difficile immaginare come una poesia potrebbe essere più giusta. È evidente che la forma non è né spenta né fiaccata finché è possibile una poesia come quella. /. Volevo chiederle qualcosa sul periodo - metà anni '60 - del quale lei ha parlato come di una fase di transizione e di grande sommovimento a livello personale. Allora era immerso nella lettura dei saggi di Emerson. B. Sì, mi diedi a leggere Emerson dalla mattina alla se139

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