Il piccolo Hans - anno XX - n. 79/80 - aut./inv. 1993-1994

guardare la scintillante curva dell'ampia riva. Il desiderio di luogo fa emergere chi scrive come soggetto allo stesso tempo «deliziato» e «diviso». E, sempre nella Prefazione al Portrait, compare la celebre immagine della house of fiction, o casa della narrativa. Edificio con un milione di aperture, feritoie finestre balconate. Dietro ciascuna di esse c'è una figura con un paio d'occhi, o almeno, come dice, con un binocolo. Ma, ed è importante, la finestra si apre solo se c'è il desiderio di guardare. «Quel desiderio», dice Proust a proposito di Ruskin, «senza il quale non si dà mai vera conoscenza» (C. Saint-E., p. 138). Se mancasse il desiderio infatti, non solo la finestra non si aprirebbe, ma non esisterebbe quella determinata modalità di sguardo. Noi l'avremmo semplicemente persa. Così come conosciamo le specie evolutive, ma a posteriori, ben sapendo che ciascuna di esse avrebbe potuto non prodursi mai. Anche per il romanzo, non c'è un disegno prestabilito cui obbedire. Inoltre - e qui secondo me è l'alto valore conoscitivo e teorico della famosa similitudine -quello sguardo, pur rivolto verso il fuori, non registra l'esistente come una scena che gli si offra già pronta. «Quelle finestre», dice James, «non sono porte che si aprano direttamente sulla vita». Con Blake, l'immaginario romanziere jamesiano intento a guardare dalla sua house of fiction, potrebbe ripetere: «vedo attraverso l'occhio, non con l'occhio». Più che a uno specchio che raccoglie l'immagine, quell'occhio può esser paragonato alla lampada che la proietta. È questo il motivo per cui i luoghi non offrono che un ausilio ambiguo e indiretto alla composizione. L'imperativo che il narratore jamesiano sente dentro di sé - «drammatizza, drammatizza!» - lo porta all'individuazione di una forma di narrazione oggettiva, impersonale, che supera la dicotomia romantica del presente e del passato, quale si dà, per esempio, in Wuthering 134

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