Il piccolo Hans - anno XX - n. 79/80 - aut./inv. 1993-1994

ora l'esito, l'abbiamo visto, è capovolto. Ora è il manufatto architettonico a vincere sul tempo. È l'oggetto lavorato a impegnare una memoria che proprio nella sua materialità insiste nel presentarsi come più profonda e complessa di quella incisa dalla traccia scrittoria. Il nesso di architettura e memoria che la poesia portava in luce in maniera riflessa e secondaria, come derivandolo dalla propria intrinseca natura di monumento, ora è stato spinto in primo piano fino a fargli occupare tutto il campo. Sì che risulti offuscata proprio la qualità ideale del collegamento: quella che autorizzava e sosteneva lo specifico motivo della gara dei materiali - di per sé comunque discutibile, e dall'esito incerto - in vista della funzione simbolizzatrice della memoria. Ora siamo messi di fronte al letteralizzarsi della metafora, ovvero alla sua scomparsa. Una sorta di materialismo opaco sembra profilarsi all'orizzonte del secolo XIX. Ma se Ruskin giudica l'architettura più capace di memoria della poesia, non è perché i materiali da costruzione si siano resi più resistenti rispetto al passato, o perché si siano trovate tecniche di restauro più fedeli e perfette. Proprio il giudizio che a più riprese egli dà sul restauro è anzi quanto mai negativo. Il restauro gli sembra «la forma più volgare di memoria», «la più totale distruzione che un edificio possa subire». Sarà dunque da riconsiderare il senso di quella sua dichiarazione: è bello e confortevole avere presso di noi ciò che le mani e gli occhi degli uomini hanno visto e toccato tutti i giorni della loro vita. All'oggetto viene lì attribuita una capacità di sentire, una sentiency diffusa e non precisamente localizzata, che ne fa qualcosa di ben diverso dal freddo monumento oraziano e shakespeariano. Al pari del canzoniere belliano, ora l'oggetto sembra poter essere insieme monumento e ricordanza. La parola è sensibilità fatta suono, idea: visione. E la capacità di sopravvivenza della parola nulla ha a che ve122

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