Il piccolo Hans - anno XX - n. 78 - estate 1993

di Lear e suo tormentatore, rappresenta, nel dramma, uno dei due grandi specchi in cui il re si riflette. L'altro è Edmund, che non parla mai a Lear, che a sua volta non parla mai con lui, ma, in quanto sua assoluta antitesi, nichilisticamente privo di quelle autentiche violente emozioni di cui Lear è prigioniero, lo illumina. In questa sede mi propongo di compiere un duplice tentativo: analizzare il Fool e Edmund di per se stessi, e, quindi, prendere in considerazione Lear sia in rapporto alla loro oscura presenza, sia in quanto egli ha, individualmente, di sublime. Vedo il Fool come uno spirito in esilio, mentre Lear, anche dopo la rinunzia al trono, non può essere tale, poiché rimane solidamente ancorato al proprio ambito. Edmund, che attrae in maniera tanto pericolosa Goneril e Regan - e in una certa misura anche noi - è amato dalle fatali sorelle proprio perché incarna tutte le qualità delle quali è privo il padre che ad un tempo esse odiano e temono. 2. Per quale motivo definire il Fool come uno spirito in esilio visto che sua arguzia, amara sino al sublime, concentra in sé tanta parte della saggezza che è dato cogliere nella tragedia di Lear? Non abbiamo forse, per così dire, la sensazione che egli sia trasmigrato qui da qualche altro dramma di Shakespeare? L'amore, osserva il Dottor Johnson, è la saggezza dei folli e la follia dei saggi. Probabilmente, egli non pensava a Lear e al suo Fool, ma certamente, come per Lear e Cordelia, il legame e il tormento di quella relazione è costituito da un amore autentico e reciproco. William R. Elton osserva acutamente, a proposito del Fool, che il «suo realismo di stampo machiavellico è sconfitto dalla sua irrazionale simpatia2», dal suo amore per Lear. Come ebbe a notare Coleridge, il Fool partecipa del pathos, o della sofferenza, propri del dramma: ma ne resta fuori, limitandosi al mero ruolo di buffone di corte. E tuttavia Shakespeare lo esclude dalla trage35

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