Il piccolo Hans - anno XX - n. 78 - estate 1993

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 78 estate 1993 Virginia Pinzi Ghisi 5 La sconfitta della prospettiva, due paure e un doppio cuneo Emilio Tadini 11 Lo sguardo del vecchio ]orge Canestri 15 La psicoanalisi, la vecchiaia, e il metodo della diversione in Montaigne Harold Bloom 34 Re Lear-Yahweh: l'amore di un padre e i mostri degli abissi Mariarosa Mancuso 53 L'ossatura divina. Le storie secondo Karen Blixen Fabio Stok 74 Paradigmi dell'etnografia antica Sergio Pinzi 97 La terra promiscua. Dislocamenti di un secondo inconscio e campi di colore Giuliano Gramigna 157 Zeno, la carriera di vegliardo Mario Spinella 173 Ludovico tra i briganti, ovvero l'etica della tarda età Jean-Jacques Lebel 189 Matta, il rompicoglioni

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola a questo numero hanno collaborato: Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Andrea Brunetti, Marta Castiglioni, Paola Colaiacomo, Gianni De Martino, John Donne, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Myra Iehlens, Ermanno Krumm, Massimo Lollini, Mariarosa Mancuso, Flaminia Nicora, Mario Spinella, Italo Viola, Paola Zaccaria redazione: Via Borgospesso 8, 20121 Milano, te!. (02) 794515 editore: Moretti & Vitali editori, Viale Vittorio Emanuele 67 24100 Bergamo, te!. (035) 239104 abbonamento annuo 1993 (4 fascicoli): lire 60.000, estero lire 75.000, e.e. postale 11196243 o assegno bancario intestato a: Moretti & Vitali, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano fotocomposizione: News, Via Nino Bixio 4, 20129 Milano stampa: Grafita!, Via Borghetto 13, 24020 Torre Boldone (BG)

La sconfitta della prospettiva, due paure e un doppio cuneo Una mano esce dal!'acqua e afferra la corda spezzata dell'àncora. Una mano esce dal!'acqua, ghermisce un sasso e colpisce. La prima mano appartiene a Cape Fear, Il promontorio della paura, regia di Martin Scorsese, 1991. La seconda a Cape Fear, Il promontorio della paura, 1961, regia di f. Lee Thompson. La prima mano è di Max Cady (Robert De Niro), che dopo quattordici anni di carcere si propone di vendicarsi del suo avvocato Sam Bowden (Nick Nolte). La seconda mano è dell'avvocato (Gregory Peck) che deve difendere sé e la propria famiglia dall'ex carcerato (Robert Mitchum). Nel 1961 la paura aggrediva la famiglia unita, l'aggressore era un maniaco sessuale, l'avvocato era stato un testimone del suo delitto. Trent'anni dopo, la paura è molto diversa per i singoli membri della famiglia, sbalestrato l'avvocato, coinvolta l'amante, un filo di soddisfazione nella moglie, molta curiosità nella figlia. In questo Promontorio della paura, l'avvocato non è più un testimone, ma l'ex avvocato di De Niro, che ha nascosto le prove che potevano aiutare il cliente. 5

Ex-carcerato, ex-avvocato, l'ex si è spostato: il passato non è più quello torbido del maniaco, ma quello dubbio del legale che è venuto meno all'etica professionale e rischia ora l'espulsione dall'albo. La paura è legata alla prospettiva. Quando la prospettiva entra in pittura, il soggetto perde la padronanza dello spazio, non può più esserci due, tre volte sulla stessa tela, presente in diversi momenti e in diverse attitudini. La prospettiva sceglie, punta e delimita. Crea una gerarchia e vi inchioda il soggetto. Quando si riesce dalla prospettiva, il soggetto di Paul Klee in Non composto nello spazio, si trova equiparato ad altri oggetti, e il quadro non è limitato dalla necessità, ma dalla superficie fondamentale. Così il soggetto non s'incanala nell'imbuto prospettico, ma l'angolo formato dalla convergenza dello sguardo si riapre nella ipsilon che ritorna al soggetto: questo è il segreto fascino dell'angolo di una stanza, la rappresentazione esterna che coinvolge, come è avvenuto per il luogo che ho chiamato «luogo della fobia», l'architettura esterna di un soggetto, le sue propaggini, il lavoro sulla casa e l'incanto degli oggetti. Come il luogo della fobia era la rappresentazione esterna dell'apparato psichico con cui il bambino reagisce, intorno all'età di quattro anni, alla pressione angosciosa della prima intuizione dell'origine, l'angolo della stanza fuoriesce dallo specchio narcisistico dello sguardo che ritorna, per ancorarsi in una struttura esterna su cui un soggetto può intervenire, ma non da solo, insieme con il tempo che scrosta le pareti, il riscaldamento che le annerisce, l'imbianchino che le rischiara, gli oggetti che le arredano. Il segno della ipsilon, Y, (cfr. S. Pinzi; Il restauro delle teorie sessuali infantili, «Il piccolo Hans» n. 69) è fin dal­ !'antichità il segno del godimento del padre, che la costruzione di una casa elabora e restituisce rovesciato. Senza questa costruzione-rappresentazione, il soggetto rimane nel cuneo di uno spazio che si assottiglia, un cuneo che, fatto per tura6

re un buco come il triangolo di carta che il verme darwiniano illustrato da Pinzi usa con intelligenza come fondamenta -su cui costruire i suoi «castelli», conduce invece nella voragine della mèta genitale. Il soggetto nella prospettiva è il soggetto che scivola lungo il canale tracciato da quelle che Freud ha chiamato le «potenze psichiche», potenze regolatrici nel senso della moderazione, pudore, vergogna, rispetto, che sono al servizio di un compito che l'istruzione sessuale chiarisce: è lo stesso soggetto che scivola sul fiume verso il Promontorio della paura. Due paure, la prima sostitutiva dell'angoscia scatenatasi davanti al primo culmine della vita sessuale, quello della sessualità paterna, la seconda quella che ci aspetta, nonostante tutto, in fondo al canale. Si forma un incrocio tra le due trame e i quattro protagonisti, per cui la mano dell'awocato del primo film, che esce dall'acqua ghermendo un sasso, compie lo stesso gesto della mano del giustiziere del secondo: sembra non dare la morte, «Non ti ucciderò, ma ti rimanderò in prigione», «Ti farò provare lo stesso inferno», si chiede solo giustizia, una giustizia peggiore della morte, l'equivalente dello stupro. Le scene finali dei due film ci ridanno due famiglie. Quella del film del 1961 taglia le acque su un motoscafo, tre persone unite nel trionfo. Quella del 1991 si ritrova su una piccola spiaggia, padre e madre simili ad Adamo e Eva scacciati dall'Eden, della figlia appaiono nell'ultima immagine solo gli occhi: è lei il testimone. Testimone oculare il primo awocato, testimone senza etica il secondo awocato, testimoni gli occhi della figlia, un testimone è all'origine della perversione. La perversione «sessuale» del maniaco impersonato da Robert Mitchum nasce nel rapporto prospettico con la famiglia d'origine, padre madre e bambino, e Robert de Niro di Cape Fear 2 lo rivela attaccandone o seducendone i membri uno per uno. La sua mano è quella dell'attentatore. Non di uno stupratore come lo raffigurava Thompson in Robert 7

Mitchum, aggressore di vittime pudiche, ma di un attentatore delle potenze psichiche, che spazzando via quella del pudore rende visibile la correlazione che si stabilisce, per la perversione, con la giustizia attraverso la «testimonianza», ricordo lo «zio giusto» con lo studio di tributarista contiguo alla camera da letto di Telma, da cui è nato il lavoro sul luogo della fobia: è in questa vicinanza e nell'esserci o no una parete divisoria, almeno di vetro a interrompere lo sguardo, a demarcare la rappresentazione, che lo sguardo del testimone che assiste al delitto può diventare quello dell'avvocato che vi partecipa col sottrarsi all'etica in nome della giustizia. Alla ricerca di una verità vera l'avvocato che non vuole diminuire con le prove a discarico la realtà di ciò che il suo cliente ha commesso, e il bambino che assistendo al fare altamore dei genitori non accetta una falsificazione dei fatti, di immaginarsi una lotta e di costruire da lì la "menzogna" delle teorie sessuali infantili e del romanzo familiare, dislocamenti (il pene attribuito alla madre, la cancellazione della vagina, la vera famiglia altrove) nell'ambito di una rappresentazione del luogo della fobia, ma partecipa al godimento di ciò che avviene in realtà, da un punto di osservazione in cui voyeurismo e mèta genitale non si escludono, ma si identificano, diventeranno per contrappasso dei simulatori. Il perverso si riproduce in falsi, ma è sempre un figlio, la sua famiglia rimane quella dell'origine, e la tecnica, che solo il costituirsi del luogo della fobia nella rappresentazione mette al servizio dell'arte, cioè di un'invenzione su una superficie fondamentale, rimane appannaggio del padre che l'ha generato. Se lo psicotico è figlio del godimento del padre, il perverso è figlio del suo impossibile sostituirsi al padre che gode. Ma la mèta genitale è pronta a riproporsi anche per chi l'ha allontanata con la formazione del luogo della fobia, quando la tecnica, brevemente sperimentata per l'invenzione del «romanzo familiare» e per le «teorie sessuali», viene poi affidata a un «gestore», l'operaio, l'artigiano, che soc8

corre l'insorgere dell'inibizione, ma che insieme sposta il «restauro» dalle teorie alla funzionalità, e dal lavoro dell'inconscio al raggiungimento di una mèta. In prospettiva, si ripropone per il soggetto la famiglia che costituisce nell'osservanza del compito genitale il pendant «normale» dell'osservazione del perverso. Perversione e normalità nel suo seno hanno in comune dunque di avere una prospettiva. Earte, che l'ha stanata, la rappresenta, la mima, la evita, l'annulla, la dileggia, la fa trionfare. Ma, in ogni caso, più o meno evidentemente, la fa vacillare sul suo trono, che è il cuneo della riproduzione, finché nel punto culminante della sua mèta si riapre il doppio cuneo della nuova superficie di ritorno, nella rappresentazione. Così: Eangolo delle pareti, il vetro del bicchiere, la ipsilon, il quadro, di Pablo Picasso, 1944. 9

Nota In questo la vecchiaia è un'opera d'arte, in quanto il cuneo, chiuso della prospettiva, ripropone un'apertura, come stiamo per vedere, nella caduta: «una caduta molteplice ed erratica», a rioccupare lo spazio. Da qui, « terra promiscua» come quella dell'ultimo Mosè, anche la psicoanalisi, che è sembrata crescere dal punto di vista dell'infanzia, ha un nuovo inizio. Virginia Finzi Ghisi 10

Lo sguardo del vecchio Forse nessuno sguardo è ingenuo-macchina disponibile e basta. Certo non lo è lo sguardo del vecchio. Lo sguardo del vecchio cerca qualcosa. Cerca qualcosa perché ha già visto qualcosa? O cerca di riconoscere in una figura qualcosa che ha soltanto "sentito"? Che cos'hanno visto Michelangelo che dipinge la Sistina fino al Giudizio, Degas che dipinge le donne che escono dal bagno, Cézanne che dipinge la Montagne SainteVictoire? (Non il mondo, ma il "senso del mondo" è rappresentazione, e volontà? A partire dal nichilismo...) Lo sguardo di Michelangelo, di Degas, di Cézanne- in àtto di guardare ciò che si sforzano di rappresentare nelle loro ultime opere - sembra lo sguardo di fronte al quale si apre la trasparenza assoluta, la limpidità del terribile. («A perdita d'occhio»... Non nella lontananza, si «perde», l'occhio, ma proprio nella assenza di lontananza, nella assenza di prospettiva. Si potrebbe chiamarlo, quel 11

luogo lì, in cui l'occhio si perde, si potrebbe chiamarlo il luogo svuotato di ogni metafisica?) (La distanza in se stessa - nominata nella misura - sarebbe forse un'invenzione della metafisica - un'invenzione "provocata" dalla metafisica? Così come il tempo, nominato dalla cronologia? La categorie come una specie di modello fisico indispensabile per riuscire a mettere insieme i famosi «valori»...) Qualcosa si disfa, non sta più insieme. La «società» degli uomini, nel Giudizio di Michelangelo, la loro pelle, la loro carne, nelle donne al bagno di Degas, la natura stessa nella montagna di Cézanne. (Nietzsche: il nichilismo si realizza quando i valori si svalutano - cioè quando non si dà più un fine, uno scopo, né una risposta alla domanda «perché?». Nichilismo e progetto. Paradossalmente, non è proprio il nichilismo il luogo mentale che esige il progetto? Progetto e rappresentazione... La vera e propria furia produttiva di Michelangelo, di Degas, di Cézanne, da vecchi). Michelangelo e il manierismo. Il corpo sotto sforzo - «inventato» in Grecia nel V secolo, insieme alla tragedia - celebra il suo trionfo più terribile, il suo vero trionfo negativo. I «Prigioni»... Il Giudizio... Il «cangiante» di Michelangelo. Il colore che muta, il colore impronunciabile, fatalmente antirappresentativo, "spettrale"... Michelangelo scolpisce la Pietà Rondanini a ottanta anni. È come se la madre tenesse su a fatica il corpo del figlio, come se lo tenesse fuori dalla materia senza forma - dalla forza spaventosa dell'informe. La stessa forza spa12

ventosa di fronte alla quale i «Prigioni» erano soli. L'affetto, agente, si manifesta in quello sforzo muscolare - infinito... Le cose non stanno da sole nella realtà. Bisogna tenerle, mantenerle, nella realtà. Il tenere le cose - la vita corporea- nella realtà è qui rappresentato sotto la forma di uno sforzo, di una fatica ininterrotta. L'affetto come fatica, come sforzo. Nella dimensione del niente, la forza dell'affetto. (Come forza che precede - e forse rende possibile- il sistema stesso di un'etica. Una «scelta»- addirittura istintiva...). I corpi delle donne al bagno di Degas sembrano contorcersi, come se si sforzassero di resistere a qualcosa che li attacca, che li insidia. Quello che si mostra sulla pelle di queste donne di Degas fa venire in mente certe mutazioni - certe metamorfosi- da film di fantascienza. Il procedere di certe alterazioni nei lineamenti e nella consistenza del corpo dei personaggi... (Bacon- la sua passione per l'ultima pittura di Degas...) Cézanne parte dalla illusione di assicurare in una geometria la figura del mondo. Ma, alla fine, con la SainteVictoire, non è forse come se Cézanne dipingesse una specie di giudizio universale in cui gli attori non sono corpi, ma cose - la natura? La natura «giudicata», fino nel suo intimo più profondo. (Addirittura nella microfisica provvisorietà delle sue ·particelle virtuali - di quei quanta-fantasma che avvolgono ogni elettrone e appaiono e scompaiono...) La natura dispersa. Il cosmo, addirittura condannato... E senza ragioni etiche. Per quel farsi avanti, in primo piano, di una pura inerzia materiale. (Vedere le figure del cubismo analitico in quanto determinate da qualche forza centrifuga. È ancora quel mondo in fuga di Cézanne- quella specie di «little bang» che si dà ogni giorno... Picasso e Braque ripercorrono l'itinera13

rio di Cézanne - dalla illusione, d;:tll'utopia geometrica, alla figura di un mondo che si disfa, irreparabilmente, in frammenti...) Michelangelo, Cézanne, Degas. Ma è di figure dipinte, che ci sforziamo di parlare. E, allora, per concludere, bisognerà soltanto cercare di rimettere insieme, di ricostituire i simboli fatti a pezzi - violati - dall'interpretazione. Restituire il testo! Ritornare alla lingua originaria del dipinto, con la sua parte di oscurità, con la sua parte che parla all'oscuro-che parla nell'oscurità, dico, e che parla alla oscurità... Perché questa è, certo, la sola conclusione possibile. Il testo che decostruisce lui, ancora una volta, ogni interpretazione. Emilio Tadini 14

La psicoanalisi, la vecchiaia, e il metodo della diversione in Montaigne 1. Se l'infanzia è un'invenzione del secolo scorso - Borges l'attribuiva a Charles Dickens nella letteratura - la vecchiaia sembra essere stata rimossa e negletta dal nostro secolo. Il paradosso è tanto più evidente se pensiamo che negli ultimi cinquant'anni la vita media della popolazione nei paesi ricchi dell'Occidente si è praticamente raddoppiata. Arrivare a diventare vecchi, morire di vecchiaia, non è più, come ai tempi di Montaigne un «raro privilegio» (Montaigne, Les Essais, Livre I, Ch. LVII, "De l'aage"). E tuttavia la vecchiaia, in quanto specifica stagione della vita umana, non ha suscitato, in questo periodo storico, riflessioni paragonabili a quelle dei classici. La psicoanalisi stessa, disciplina contemporanea, non sembra aver concesso alla vecchiaia, almeno fino a non molto tempo fa, speciale attenzione. Anzi, l'età avanzata costituisce, tutt'al più, una controindicazione per intraprendere un'analisi. Freud, dimentico in questo caso della sua ammirazione per Sofocle, tralascia di sottolineare che questi, già molto anziano, chiamato in giudizio dai figli che cercavano di farlo dichiarare inabile, convince i giudici della sua intatta capacità mentale leggendo per loro l'Edipo a Colono, che aveva appena finito di compor15

re (Cicerone: De Senectute). Per non parlare poi degli scritti che nascono dalla penna di Freud vecchio, lavori "culturali" che egli si sente autorizzato a intraprendere adducendo che ciò gli è consentito dall'età. Ma il problema non risiede, a mio avviso, nel dimostrare la creatività protratta nel tempo di alcuni vecchi famosi - di esempi in proposito se ne potrebbero trovare tanti - quanto nel riuscire a concepire la vecchiaia come un'età della vita. Sembra ovvio che la vecchiaia è, di fatto, la stagione terminale del ciclo vitale dell'uomo, ma qualcosa ci spinge a tralasciarla, a non concederle una dignità pari alle altre tappe del ciclo: l'infanzia, la giovinezza, la maturità. La vecchiaia appare, sempre e soltanto, come l'epoca del deperimento, dell'usura, delle perdite: perdita delle forze, della lucidità, del desiderio. Non si tratta di riproporre con Cicerone le quattro difese contro le accuse che si muovono alla vecchiaia, difese indubbiamente consolatorie, ma del fatto che nell'elencare con dovizia di particolari ciò che viene progressivamente a mancare mentre l'età aumenta, riecheggiando il Lord Jaques di Shakespeare - «Last scene of all, / that ends this strange eventful history, I Is second childishness and mere oblivion, / Sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything» - si finisce col perdere completamente di vista la specificità di un periodo del travaglio umano, sul quale non si sofferma più la meditazione. Lord Jaques, in As you like it (Atto II, Scena VII), rappresenta la malinconia, uno stato che molta letteratura attribuisce con disinvoltura alla vecchiaia; il rischio è quello di confondere una patologia specifica, magari frequente nella tarda età, con una caratteristica propria dell'età stessa. Shakespeare mette tuttavia bene in rilievo il fatto che questa «strana storia avventurosa», che l'uomo rappresenta nel palcoscenico del mondo, ha sette età («His acts being seven ages»), di cui l'ultima è la vecchiaia, a pari dignità con le precedenti. 16

Forse è stato Cicerone, nel doloroso lutto per la morte di Tullia - lutto che sembra aver scatenato in lui una grande attività creativa - colui che meglio ha descritto, nei termini delle leggi di natura e della loro ineluttabile necessità, ciò che oggi appare rimosso: «... non può aver trascurato la natura l'ultimo atto (l'ultimo atto del dramma, che è uno, poiché la 'vita' ha un suo corso ben definito) e deve avere dunque qualcosa di vizzo e di caduco» (Cicerone, De Senectute, II). 2. Per smentire la specificità della vecchiaia, nella letteratura psicoanalitica, si argomenta che l'inconscio non conosce il tempo. Si dimentica che l'inconscio non è la totalità dell'apparato psichico. Si tralascia di dire, inoltre, che il concetto di sviluppo nella teoria psicoanalitica presuppone un complesso processo di risignificazione retroattiva che ha la durata della vita stessa. Prendiamo come esempio il complesso di Edipo: se è canonico che esso sia sottoposto a rielaborazione ogniqualvolta le vicissitudini della vita normale sollecitano il soggetto - pubertà, matrimonio, nascita dei figli, ecc. - per quale motivo ciò non dovrebbe accadere di fronte agli eventi vitali che caratterizzano la vita del vecchio? E cioè, il pensionamento, la nascita e crescita dei nipoti, la morte dei coetanei, la malattia, il pensiero della propria morte. Anche senza condividere i presupposti teorici che ispirarono E. Erikson nel concepire l'intero ciclo vitale come una sequenza di compiti di sviluppo, è possibile percepire l'utilità e la correttezza di vedere il ciclo dello sviluppo umano esteso fino alla morte dell'individuo (E. Erikson, 1959; H. W. Wylie & M. L. Wylie, 1987; H. W. Loewald, 1979). Stefania Manfredi Turillazzi (1991) ne ha parlato, in un lavoro a cui farò rHerimento anche in seguito, in termini di una «prospettiva complessiva del ciclo vitale». Se diventa dunque pensabile che anche la vecchiaia è un momento particolare dello sviluppo dell'uomo e non 17

ci si affretta a sorvolarlo, il concetto dell'atemporalità dell'inconscio diventa prezioso punto di riferimento per meglio capire quali problemi singolari presenta l'esser vecchi. Proviamo a fare un solo esempio, e scegliamo, tra i tanti tabù che si ergono davanti al tema della vecchiaia, quello del sesso. Sulla sessualità dei vecchi, come d'altronde su tutto l'argomento della vecchiaia, ci sono delle credenze stereotipate, delle asserzioni condivise senza prove che le sostentino. Balint si fa pioniere, in un lavoro del 1933 (The psychological problems of growing old), della tesi secondo cui il conflitto tra pulsione e difesa, nella vecchiaia, lascia il suo posto, per regressione, al ritorno a un livello più infantile di sessualità. La regressione diventa così una variabile dipendente dalla vecchiaia. L'affermazione di Balint non trova conferma nella realtà clinica, o meglio, non trova conferma in quanto affermazione universale. Ciò che colpisce è che mentre nessun analista farebbe affermazioni con pretesa di validità sulla sessualità in generale delle persone adulte, tenendo in ragionevole conto le infinite variazioni possibili, quando si tratta della vecchiaia avviene il contrario. Tutto farebbe pensare che la regressione è una variabile indipendente dalla vecchiaia, e che molte delle asserzioni su di essa siano variabili dipendenti dal contro-transfert dell'analista, un argomento sul quale mi soffermerò brevemente in seguito. L'inconscio è dunque atemporale nella vecchiaia, tanto come in qualunque altra età; ciò che probabilmente è vero è che il contrasto tra l'atemporalità del desiderio inconscio e la temporalità dell'apparato psichico si fa sentire di più nella vecchiaia. Freud invitava i suoi lettori o ascoltatori novelli a non scandalizzarsi per la natura dei desideri rivelati dai sogni; ricordiamo che il «socio capi18

talista» del sogno è sempre un desiderio infantile rimosso, che lega il materiale dei pensieri latenti del giorno alle più primitive radici, sempre le stesse, del soggetto. La traballante autostima, le inevitabili perdite narcisistiche che comporta la vecchiaia, rendono più difficile l'accettazione di questi desideri, e del loro carattere sessuale. Intendo sessuale, in questo caso, nell'accezione psicoanalitica. Valga come unico esempio il sogno della donna matura, che ha un figlio combattente nella Grande guerra, e che si dichiara patriotticamente disposta ai «servigi d'amor» con la truppa. Null'altro - ma non è irrilevante in funzione di ciò che è stato detto prima - verrà fuori dall'interpretazione di questo sogno; che Freud non rivelerà alla dama in questione, per non turbarla, se non ciò che potevamo aspettarci: una rielaborazione del complesso edipico correlata sia con il momento particolare dello sviluppo che con le circostanze specifiche della vita della donna. La letteratura ha aiutato la psicoanalisi, come ben sappiamo, a rendere pensabili tanti anfratti della vita dell'uomo. Per ciò che riguarda la sessualità della vecchiaia, in questa difficile articolazione dei desideri infantili rimossi che ritornano nel "senza tempo" dell'inconscio, con la temporalità della vita mentale nel suo insieme, un racconto dello scrittore giapponese Yasunari Kawabata: La casa delle belle addormentate, potrebbe offrire spunti alla riflessione. Ciò che il marchingegno letterario - una "casa di tolleranza" sui generis, dove le fanciulle vergini dormono un sonno drogato, giacendo accanto a vecchi presumibilmente impotenti - rivela, come in uno specchio che si offre alla proiezione, è il mondo fantasmatico della vecchiaia consapevole del protagonista. Queste "belle addormentate", quasi morte, sono la "cosa" (das Ding) di fronte alla quale il pensiero retrocede, si slancia, e verte volta per volta, grazie alla compiacenza del sonnomorte dell'altro, le immagini che hanno animato il vivere e che preludono al morire. Nei pensieri, nelle fantasie, nei 19

sogni, nella rivolta finale del protagonista narrante si dispiega un'acuta coscienza della peculiarità dell'essere vecchi e del dover fare i conti con i propri fantasmi e con i propri desideri a quell'età. 3. Sia che si parli della specificità della vecchiaia come età dell'uomo, inclusa nella "prospettiva complessiva del ciclo vitale", sia che si tratti della sessualità dei vecchi, si avverte una resistenza che, a giusto titolo quando parliamo di psicoanalisi e di psicoanalisti, possiamo denominare resistenza di controtransfert. Avevamo già accennato al fatto che la tesi di Balint sulla regressione come variabile dipendente dalla vecchiaia potrebbe essere intesa come una resistenza ad accettare l'esistenza del conflitto pulsione-difesa negli anziani. Nello stesso modo possiamo pensare che la scarsità di prove a sostegno·di certe affermazioni circa la non-analizzabilità dei vecchi, il misconoscimento e addirittura il rifiuto della loro sessualità e lo strano consenso sui luoghi comuni sulla vecchiaia non sorretti da alcuna convalida, siano la conseguenza di una incapacità controtransferale dell'analista. Pearl King (1974, 1980) ha sottolineato la tendenza degli analisti a identificare i pazienti anziani con i propri genitori, mobilitando conflitti aggressivi nei loro confronti e difendendosi successivamente da essi. Harold W. Wylie & Mavis L. Wylie (1987), in un interessante lavoro intitolato The older analysand countertransference issues in psychoanalysis, ricordano che è altrettanto importante studiare le difese dell'analista contro i conflitti sessuali che appaiono come conseguenza delle possibili identificazioni tra i pazienti anziani e i genitori dell'analista. Stefania Manfredi Turillazzi (1991), nel suo bel lavoro Il tempo della vita, il tempo dell'analisi, si spinge, giustamente, più in là, e concettualizza le difficoltà controtransferali dell'analista, che sono senza dubbio i maggiori ostacoli nell'analisi dei vecchi, in questi termini: «Ostacoli percepiti 20

come legati all'età senile o presenile del paziente reificano la paura proiettata dell'analista, riguardante i limiti della propria capacità di sviluppo». Questo è il vero problema: un misto di rifiuto di pensare la propria vecchiaia e di timore della incapacità di continuare il proprio sviluppo. Questa asserzione fa inoltre capire quanto sia difficile, quindi, pensare la vecchiaia come una tappa specifica dello sviluppo umano complessivo, ma anche quanto ciò sia importante, culturalmente e clinicamente. Ricordo molto bene gli sforzi di un mio paziente anziano, in età di pensionamento, per illustrare a me, allora giovane analista, la possibilità e l'utilità di analizzare un vecchio. Chimico industriale valido, vicino al ritiro dalla vita attiva (aveva sessantasei anni), aveva fatto già un'analisi all'inizio della maturità, con buoni risultati. Tuttavia, egli pensava che la vecchiaia gli poneva alcuni nuovi problemi, relativi alla sua vita sessuale, alle soddisfazioni vicarianti che i figli offrivano ad alcuni suoi vecchi desideri, al suo ritiro dal lavoro come chimico, alla possibilità di incrementare una parallela attività come studioso dell'omeopatia, che aveva tenuto in sordina fino ad allora.. Concordare con lui gli orari per lavorare insieme -fu possibile in funzione dei suoi impegni accordarci solo per le sette del mattino, orario nel quale non avevo e non ho mai più successivamente lavorato con pazienti -fu solo la minore delle difficoltà alle quali dovetti sobbarcarmi. La maggiore era, per l'appunto, quella di allargare i limiti delle mie capacità di sviluppo mentale. Devo però riconoscere che se accettai fu perché il paziente stesso pareva dimostrare che crescere era sempre e comunque possibile. Di ciò gli sono stato sempre grato. L'analisi di questo paziente durò tre anni, in primo luogo in quanto egli aveva fatto una lunga analisi precedentemente, in secondo luogo perché concordo con l'indicazione di S. Manfredi Turillazzi nel senso che le analisi dei vecchi non devono essere lunghe, non devono colludere 21

con l'idea di assimilare il tempo dell'analisi al tempo che rimane da vivere e identificare la fine dell'analisi con la minaccia di morire. Ci sono forse due figure del tempo vissuto nella vecchiaia che devono essere analizzate. Ho trovato due illustrazioni molto belle in Alice in Wonderland di Lewis Carroll. La prima figura è quella del tempo che fugge, che corre follemente e senza sosta, che è vissuto minacciosamente, che incute paura. È rappresentata nella figura di White Rabbit, che mentre va sempre di corsa, controllando l'orologio con affanno, dice a se stesso:«Oh, dear! Oh dear! I shall be too late!». La seconda è tutta contenuta nel dialogo tra Alice e lo Batter, in A mad tea-party. Alice dice, dopo che l'orologio è stato immerso nella tazza di tè: «Che buffo orologio! Dice il giorno del mese, ma non dice che ora è!». E lo Batter risponde: «Perché dovrebbe? Per caso il tuo orologio ti dice che anno è?».«Ovviamente no - risponde Alice prontamente-ma ciò avviene perché sosta nello stesso anno per un lungo tempo».«Che è esattamente ciò che fa il mio» risponde lo Batter. Se si tiene in mente la scena si ricorderà che lo Batter può manipolare il tempo onnipotentemente, e far sì che sia sempre la stessa ora della giornata, l'ora del "five o'clock tea". Si ricorderà inoltre che la cosa presenta degli svantaggi, non è mai possibile sostituire né lavare il vasellame, giacché è sempre l'ora di prendere il tè. Gli assurdi personaggi della storia possono solo spostarsi intorno al tavolo per tornare in definitiva sempre allo stesso posto. Nell'analisi degli anziani queste figure (che si trovano anche nelle analisi di pazienti di ogni età) possono acquistare un particolare rilievo. La prima ci mette in contatto con le angosce derivate dal tempo che fugge e che annuncia la fine vicina, facendo scomparire il tempo presente. Eppure è vero che:«... Nessuno è tanto vecchio da non poter sperare in un altro giorno di vita. E un solo giorno è un momento della vita» (Seneca, Lettere a Lucilio, Libro I, 12, 22

6). La seconda illustra la ripetizione, e qualche volta sembra il risultato delle manovre onnipotenti tendenti a fermare il tempo che va via, con la conseguenza di anticipare la morte. «Che cosa servono a quel tizio ottant'anni trascorsi nell'inerzia? Costui non è vissuto, ma si è attardato nella vita, e non è morto tardi, ma lentamente. "È vissuto ottant'anni". L'importante è da che giorno calcoli la sua morte» (Seneca, Lettere a Lucilio, Libro XV, 93, 3). In rapporto all'osservazione sulla durata dell'analisi, quella di fermare il tempo è una fantasia da analizzare con cura, poiché esiste il rischio di trasformare l'analisi, seguendo le aspettative del paziente che proietta l'idea di manipolazione onnipotente del tempo sull'analista e sull'analisi stessa, in un pazzo tea-party. Sempre Seneca enuncia che dall'unione di queste due figure nasce un: «... ondeggiare infelici tra il timore della morte e le angosce della vita» (Libro I, 4, 5). Il tempo acquista comunque, per molti soggetti, da un certo momento della vita in poi, un carattere sacrale, che è ben illustrato nel rimprovero che lo Hatter rivolge ad Alice: «If you knew Time as well as I do, you wouldn't talk about wasting it. It's him». 4. Non si può scindere la considerazione della vecchiaia dalla considerazione dei processi di lutto. Da una parte c'è il deperimento che fa parte del normale invecchiamento. Intendo per deperimento la perdita di capacità fisiche e mentali prima possedute, e sottolineo normale, in quanto nella letteratura frequentemente si omette di distinguere tra la normalità del processo e la patologia. Quest'ultima, quando non è la conseguenza di fattori organici specifici, è il risultato, come in un'altra qualunque tappa della vita, di strutture già patologiche, deboli, narcisistiche o insufficientemente integrate, che cedono di fronte a sollecitazioni che superano i loro mezzi. Da un'altra parte ci sono i lutti dovuti alle inevitabili perdi23

te, che si accumulano nel passato e nel presente. E infine ci sono, e sono di gran lunga più importanti, i lutti relativi ad aspetti interni persi o smarriti, a desideri sacrificati, a parti di sé dimenticate o neglette. È stato George H. Pollock (1980, 1981, 1982) chi meglio ha illuminato, a mio avviso, questo specifico problema del normale processo d'invecchiamento. Pollock ha sottolineato che nell'analisi delle persone anziane è possibile osservare come queste siano impigliate nel lutto: il passato non riesce a diventare passato (situazione abituale anche nell'analisi di pazienti di ogni età), ma si rende anche impossibile il dialogo con parti di sé che rimangono elise, sottraendo energie da investire nel presente e nel futuro. Pollock ha descritto un processo trasformativo che ha denominato «processo di liberazione dal lutto» (moumingliberation process ), che dovrebbe consentire, attraverso la mobilitazione di «energie» libidiche e aggressive, sia un rilancio della creatività, sia una maggiore capacità di far fronte agli inevitabili traumi, transizioni e perdite proprie dell'età. L'analisi può essere, dunque, il luogo privilegiato per portare avanti il «processo di liberazione dal lutto». Come questo processo verrà teorizzato e attuato e dove verrà messo maggiormente l'accento, dipenderà certamente dall'orientamento di ogni analista. Stefania Manfredi Turillazzi lo descrive come una «operazione di restituzione», di «recupero del tempo vissuto», di «riapertura del dialogo con i nostri morti», poiché «è con gli oggetti interni che l'anziano farà nuove relazioni». Norman A. Cohen (1982) ricorda le idee di Winnicott (1958) sulla capacità di essere soli, di comunicare internamente con parti di sé o con i propri oggetti; questa capacità si rivela un «fenomeno altamente sofisticato... intimamente relazionato con la maturità emotiva» (Winnicott). M. Klein lega lo stesso fenomeno a una adeguata configurazione della «posizione depressiva»; da essa di24

pendono le capacità riparative che permettono di elaborare il lutto e stimolano la creatività. Nel lavoro analitico con gli anziani questi aspetti della vita mentale sono, comunque, particolarmente significativi. Da un punto di vista leggermente diverso, ma non contraddittorio né escludente, ho cercato di mettere in rilievo in un'altra occasione (Canestri, 1989), che è possibile recuperare nell'opera di Freud un meccanismo differente da quello della riparazione. Si tratta della riconciliazione (Versohnung), cioè della possibilità dell'apparato psichico di armonizzare tra di loro le proprie istanze e di instaurare un adeguato rapporto tra la realtà psichica e la realtà esterna. Ciò si rivela fondamentale nella vecchiaia, se teniamo presente quanto detto prima circa la discordanza tra l'atemporalità del desiderio inconscio e la temporalità dell'apparato stesso. Un altro sentimento frequente di questo periodo della vita è il rimpianto per ciò che non si è potuto o saputo compiere. L a riconciliazione con se stessi implica anche l'accettazione di ciò che si è potuto fare, la riconciliazione con la realtà di ciò che si è e di ciò che si è stato. Questa riconciliazione, per essere attuata, presuppone un adeguato «processo di liberazione dal lutto». 5. Uno degli esempi più compiuti di consapevolezza della «prospettiva complessiva del ciclo vitale», di capacità di esperire la riconciliazione, di mutazione del soggetto è forse l'opera di Michel de Montaigne. Les Essais, la cui scrittura impegna gli ultimi vent'anni della vita di Montaigne (1572 - 1592), sono concepiti come un ritratto. L'annuncio "Al lettore", in testa alla prima edizione (Libri I e II), rivela a chiare lettere il disegno di costruire un ritratto del suo Io. Nel capitolo "De la praesumption" (II, XVII) si legge: «Si offre il proprio ritratto agli amici: perché non mi dipingerei io qui con la penna come altri si fanno disegnare con la matita? I miei saggi 25

rivelano le imperfezioni del mio spirito; è necessario per ciò nasconderle? Mi viene il pensiero di nascondere il ritratto che il mio pittore mi ha fatto perché mostra la mia calvizie?». È vero, come hanno sottolineato gli specialisti, e come d'altronde si desume da una lettura attenta dei tre libri, che il ritratto dell'Io dell'autore ha inizio solo nel 15781580, data nella quale egli scrive quei saggi a carattere personale (I, XXVI; I, XXXI; II, VII; II, X e parte di II, XVII e II, XXXVII) che sono di natura ben diversa dai precedenti (1572 - 1578), composti come erano alla maniera delle «Lezioni» divulgative degli scritti altrui (nella fattispecie di Seneca, di Plutarco, di Sesto Empirico, ecc.). Ma è altrettanto vero che il lettore attuale, trovandosi tra le mani il testo definitivo, con i suoi tre strati di sedimentazione: cioè l'edizione del 1580, quella del 1588 e il testo che risulta dall'aggiunta delle innumerevoli note scritte da Montaigne come preparazione per una sesta edizione, uscita dopo la sua morte, deve fare attenzione ai segni ai margini (A, B, C per le tre edizioni menzionate nell'edizione di Pierre Villey da me consultata) per distinguere il testo originale, le aggiunte e i rimaneggiamenti successivi. Nell'insieme, quindi, prevale l'immagine di un ritratto che con il tempo muta, si arricchisce, si trasforma, ma conserva una sua chiara unità. Tuttavia, per i nostri fini odierni - leggere Montaigne con l'attenzione rivolta alle mutazioni del soggetto e alla comprensione del processo implicato - la separazione canonica tra il Montaigne poco più che compilatore dei primi due libri e il Montaigne del terzo libro, che rivela i tratti più intimi e più confidenziali del suo lo, è utile e corretta. Nel periodo che va dal 1572, data d'inizio del progetto, al 1580, data della pubblicazione dei primi due libri, si avverte già una trasformazione progressiva del tono e delle fonti alle quali egli fa ricorso. L'arroganza raziocinante 26

di Seneca è sostituita prima dalla morale più umana e più morbida di Plutarco (Opere Morali), poi dalla certezza del cuore e dalla relatività attribuita alle credenze che è una nota caratteristica della filosofia di Sesto Empirico (Hypotyposis). Questa trasformazione è già pienamente compiuta nel terzo libro, nella redazione del quale Montaigne, con ampia autonomia di pensiero, nel declino della sua vita, riflette sulla propria esperienza e non più sui libri altrui. Tra il 1580 e il 1586, data nella quale rimette mano a Les Essais per la redazione del terzo e fondamentale libro, diversi avvenimenti condizionano non poco la sua esistenza. Appena dati alla stampa i primi due libri, egli parte per un lungo viaggio che lo porta in Svizzera, Germania e Italia e dal quale farà ritorno al suo castello più di un anno dopo. Nel suo secondo mandato si scatena la sanguinosa guerra civile che devasta particolarmente il Périgord e arriva alle porte dei suoi possedimenti, accompagnata dalla peste, che miete vittime anche nella sua casa e che lo costringe a fuggire via per sei mesi con famiglia e servi. Il periodo che va dall'inizio del 1586, come detto prima, fino al 1588 è occupato dalla stesura dei saggi del terzo libro. Enrico di Navarra diventa unico re dei Francesi e sollecita Montaigne a ritornare alla vita attiva. In una lettera del 1590 (aveva cinquantasette anni), Montaigne si scusa e si congeda dal re e dalla vita. Egli scrive: «Je me dénoue de partout», morrà due anni dopo. Ho elencato i fatti degli ultimi dodici anni della vita del moralista - ai quali bisognerebbe forse aggiungere, nel 1578, l'inizio della sua malattia, la «maladie de la pierre» - perché essi sono essenziali per la comprensione del mutamento avvenuto tra la prima parte dei suoi saggi e la seconda. Sebbene, come già detto, il passaggio da Seneca a Plutarco e poi a Sesto Empirico come fonte d'ispirazione, preludesse alla originalità del terzo libro. Questa origina27

lità è, sotto molti aspetti, totale. Originalità, innanzitutto, dello stile, che rispecchia adeguatamente la decisione, che è chiara e ferma, di far irrompere senza più remore l'io narrante e le sue esperienze di vita; originalità, inoltre, dei suoi ideali di saggezza, che mutano radicalmente. Se nei primi due libri l'ideale è quello stoico, con quel tanto di Epicuro che si trova pure in Seneca, ideale che egli rappresenta nel suo «metodo della preparazione», nel terzo libro questo metodo è abbandonato e criticato, per essere sostituito con il«metodo della diversione». Per ciò che riguarda il primo metodo, non è necessario dilungarsi poiché non serve al nostro argomento ed è per di più ampiamente corrispondente all'ideale stoico. Basti segnalare i capitoli XIV, XIX e XX del primo libro, i cui titoli parlano da soli: "Que le goust des biens et des maux depend en bonne partie de l'opinion que nous en avons", "Qu'il ne faut juger de nostre heur, qu'après la mort" e "Que philosopher c'est apprendre à mourir". Montaigne, nel 1572, vuole un bel morire, che è morire da filosofo, di una morte che faccia onore alla sua vita. In consonanza con questa idea il capitolo XIX porta come esergo la impietosa frase di Ovidio: «Scilicet ultima semper / Expectanda dies homini est, dicique beatus / Ante obitum nemo, supremaque funera debet» (Metam. III, 135), e il capitolo XX si apre con la seguente frase:«Cicerone dice che Filosofare altro non è che prepararsi alla morte». Nei saggi del 1588 il motto ciceroniano sarà ripreso in un senso completamente opposto, la morte non sarà più il«but», la meta della vita, ma il«bout», la fine, il capo. E a una morte che onora sarà preferita una morte dolce, naturale, raccolta. Dieci anni non sono passati invano, tanto più che essi gli hanno insegnato prima, durante il suo lungo viaggio, la varietà dei costumi e delle usanze umane, e poi, durante la guerra civile e la peste, i mille volti del morire. Ma, inoltre, Montaigne è malato ed è invecchiato; anche se og28

gi risulta difficile pensare alla vecchiaia di un uomo che quando morì non aveva ancora sessant'anni, egli si sapeva vecchio e vicino alla morte. Nella stessa lettera al re menzionata prima dice di essersi raccolto nella sua testuggine, come le tartarughe. Pertanto, il terzo libro di saggi, scritto tra il 1586 e il 1588 (e le addizioni successive), è il libro della vecchiaia. Interessante, dunque, per il nostro argomento, l'abbandono del metodo della preparazione rimpiazzato dal metodo della diversione (de la diversion), termine quest'ultimo che va inteso innanzitutto etimologicamente. Nell'opera di Montaigne si disegna un campo semantico coerente quando si tratta del metodo della diversione: i termini che concorrono sono «détourner, fourvoyer, dissoudre, dissiper, dispenser, soulager». Due esempi possono renderlo chiaro: se si tratta di quelli che vanno al supplizio, dice il moralista, ben vengano le preghiere rumorose, le emozioni forti, riescono a far sì che «ils destournent de la mort leur consideration» e in qualunque caso, aggiunge, davanti a qualunque dolore «la variation soulage, dissout et dissipe». Se il metodo della preparazione faceva dello spirito il maestro intollerante del corpo, il metodo della diversione rivendica i diritti dei piaceri che questo può procurare e attraverso i quali può istruire l'anima. L'anima e il corpo sono adesso un'unità inscindibile. La mutazione di Montaigne, che certamente va messa in rapporto coi fatti dei suoi ultimi dodici anni di vita, non sfugge alla sua teorizzazione. Egli ci offre dettagliatamente le ragioni per cui ha abbandonato lo stoicismo, che chiude il soggetto nell'egoismo e nell'arroganza, e che è, inoltre, smentito dall'esperienza. Interrogando il suo lo, osservandosi, raffigurandosi senza curarsi troppo delle sue imperfezioni, egli conclude che la natura umana, e in primo luogo la sua, è vanitosa. Se riflette su ciò che lo ha spinto a fare il suo lungo viag29

gio, al di là di considerazioni circostanziali (cercare un sollievo alla sua «maladie de la pierre», egli deve ammettere che è stato il suo amore per i viaggi a spingerlo, il suo desiderio di cose nuove. Esse gli offriranno lo spunto per continuare l'altro viaggio, il viaggio nell'io, attraverso la scrittura: «Chi potrebbe ignorare che io abbia intrapreso una strada per la quale, senza sosta e senza fatica, proseguirò finché ci sarà inchiostro e carta al mondo? Non posso tenere il registro della mia vita dalle mie azioni, la fortuna le mette troppo in basso; lo tengo con i miei pensieri» (fantasies; Livre III, Ch. IX). E dialogando con un interlocutore immaginario che gli decanta le virtù delle cose proprie, conosciute, egli dirà di amare le cose nuove e sconosciute, di esserne avido. «Io mi distolgo (destourne) volentieri dal governo della mia casa», il piacere che viene dal comandare è troppo uniforme. La vanità della natura umana, nella riflessione di Montaigne, corrisponde in buona misura al narcisismo, ma non si esaurisce in esso. Il metodo della diversione - che trova sì il suo fondamento nell'accettazione del narcisismo insito nella natura dell'uomo - libera il desiderio del soggetto, lo rilancia nella ricerca di nuovi oggetti. La teoria freudiana del desiderio come motore dell'apparato psichico è simile, nei principi regolatori, al metodo della diversione. Chi voglia approfondire la comprensione del suo metodo, la sua novità e la varietà di esperienze a cui esso si applica, si rivolgerà innanzitutto al Capitolo IV, "De la diversion", al V, "Sur des vers de V irgile", al X, "De mesnager sa volonté" e al XII, "De la phisionomie", tutti scritti probabilmente nello stesso periodo (1586 o 1587). Il compito di queste note è solo quello di rintracciare validi punti d'appoggio per cominciare a pensare di nuovo la vecchiaia come un particolaremomento della soggettività. Montaigne rivendica a questo proposito la tolleranza con se stessi e la fantasia: «C'est à nous à resver et bague30

nauder, et à la jeunesse de se tenir sur la reputation et sur le bon bout: elle va vers le monde, vers le credit; nous en venons» (Livre III, Ch. V) e la libertà e il piacere che si è in grado di procurarsi: «Quant à la vieillesse qu'on m'allegue, au rebours c'est à la jeunesse à s'asservir aus opinions communes et se contraindre pour autruy... A mesure que les commoditez naturelles nous faillent, soustenons nous par les artificielles. C'est injustice d'excuser le jeunesse de suyvre ses plaisirs, et deffendre à la vieillesse d'en chercher. Jeune, je couvrois mes passions enjouées de prudence; vieil, je demesle les tristes de dèbauche» (Livre III, Ch. IX). E se le leggi platoniche proibivano il pellegrinaggio dopo una certa età, perché c'era il rischio di non tornare da una sì lunga strada, egli risponde: che m'importa? «Je ne l'entreprens ny pour en revenir, ny pour le parfaire; j'entreprens seulement de me branler, pendant que le branle me plaist. Et me proumeine pour me proumener» (idem). Montaigne rivela anche un'acuta consapevolezza di ciò che la vecchiaia, momento finale della vita, consente di fare: completare ciò che si è e che si è stati. Un'ultima citazione da Les Essais può servire ad illustrare questa conoscenza di sé: «Non sono più in condizioni di fare un grande cambiamento... Non è più il tempo di divenire un altro», ma anche del compito finale: «Insomma eccomi qua a rifinire quest'uomo, non a rifarne un altro. Da lunga consuetudine questa forma mi si è trasformata in sostanza, e la fortuna in natura». Questa breve incursione nei Saggi di Montaigne ci consente di ritrovare quelli che ci appaiono oggi i nodi principali di una riflessione e di un'azione psicoanalitiche sulla vecchiaia. Mi sia consentito di elencarli per chiudere queste note: riconoscere alla vecchiaia il carattere specifico di una tappa in una prospettiva complessiva dello sviluppo umano; tener presente le vicissitudini del narcisismo del31

l'anziano e il suo diritto al piacere; combattere pregiudizi che non hanno alcuna base prob_atoria, ma dipendono in genere da resistenze personali; facilitare il processo di liberazione dal lutto che consente il dialogo con se stessi, favorisce il processo di riconciliazione e rilancia il desiderio e la creatività e, infine, analizzare con cura le figure che il tempo assume nella vecchiaia. Persino lo stoico Seneca accettava che « ... è piacevole stare con se stessi il più a lungo possibile, quando ci si è resi degni di goderne». Io lo riformulerei dicendo: quando ci si è messi in condizioni di goderne. ]orge Canestri 32

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Re Lear-Yahweh: l'amore di un padre e i mostri degli abissi 1. Lear è un personaggio letterario di tale grandezza da sfidare ogni descrizione diretta: qualsiasi cosa si dica di lui, subito si avverte il bisogno di controbilanciarla con un'affermazione diametralmente opposta.'' Al pari del mio compianto amico Northrop Frye, sono portato a vedere il precursore di Lear nello Yahweh delle Scritture, noto a Shakespeare attraverso la Bibbia di Ginevra. Come ha osservato Frye, «quello Yahweh non è affatto un dio teologico, ma un personaggio intensamente umano, violento e imprevedibile quanto Re Lear1 ». Le improvvise esplosioni di collera di Lear sono infatti sorprendenti come quelle di Yahweh, e, come Yahweh, Lear rimane talvolta al di là della nostra misura; molto più di qualsiasi altro personaggio del dramma, Lear è in pari tempo un dio caduto, mortale, e un re. Ma, a differenza dello Yahweh delle Scritture, Lear è temuto e insieme amato da tutti coloro che nel dramma sono, da un punto di vista morale, degni di ammirazione: Cordelia, Kent, Gloucester, Edgar, Albany, mentre coloro che odiano il re sono mostri degli abissi. Rimane fuori il Fool, il quale ama Lear e tuttavia manifesta una inquietante ambivalenza nei confronti del suo padrone. Il Fool, quarto figlio 34

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