Il piccolo Hans - anno XX - n. 78 - estate 1993

«Non colui che visse ma colui che descrisse». Basterà un altro quarto di scarto per assumere la forma: «Non colui che vissi ma colui che (nominativo!) scrissi». Nel seminario sulle psicosi 11 , Lacan ha dedicato un bel po' del suo discorso alla differenza fra due trascrizioni di una medesima frase: è !'abbastanza famoso «tu es celui qui me suivra» e «tu es celui qui me suivras»: passaggio dalla terza alla seconda persona - problema di personnaison, secondo dice Lacan. Credo che se ne possa dedurre qualcosa di utilizzabile anche nel nostro campo. Qui la frase con la relativa è doppia («colui che vissi», «colui che scrissi») ma è proprio l'interazione dei due verbi «vivere» e «scrivere» a produrre l'efficacia ermeneutica della trasformazione proposta. Del resto, sia nell'esempio di Lacan che in quello presentato qui, il soggetto della principale («Io sono») è un soggetto incompleto, che attende di determinarsi. «Colui che» funziona da filtro, da diaframma del passaggio indispensabile. Ma la permeabilità del diaframma dipende dal senso del verbo che segue («serivere»), dalla forza assegnatagli - dal suo registro di significante. «Io sono colui che scrisse» non va oltre la mera constatazione di un evento; distacca il soggetto dal proprio agire (che diventa un atto) e lo definisce al confronto di una operazione. La principale e la secondaria vengono sì collegate, ma in modo da conservare uno scarto minimo di adeguamento reciproco. Questo spazio è scavalcato o meglio distrutto nella formulazione: «Io sono colui che scrissi». Il neutro della terza persona viene riassorbito in tutta la forza e l'adempimento del soggetto che parla. Al rilevamento di un rapporto (con lo scrivere), succede una investitura assoluta, un'assunzione assoluta di identità. Se si può immaginare che la prima formula risponda alla domanda: in che rapporto mi trovo con lo scrivere (l'avere scritto)?; la seconda suppone una domanda sola: chi sono io?, implicata, si 168

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