Il piccolo Hans - anno XX - n. 78 - estate 1993

1906, non tanto di rammarico quanto di curiosità: «Perché, diavolo, parlo tanto della mia vecchiaia?». Non vorrei lasciar sfuggire la scelta, e l'insistenza, di Svevo per quanto riguarda il termine «vegliardo»: «Le confessioni del vegliardo» s'intitola uno dei pezzi citati; e un altro, addirittura «Il vecchione». È una denominazione che non solo si adatta male, secondo l'uso corrente, all'età del personaggio Zeno, intorno ai settanta anni (pressappoco quella di Svevo, mentre scrive), ma con la sua patina arcaica non sembra addebitabile tout court alle idiosincrasie «naturali» dell'italiano di Svevo. Una mera elezione linguistica disloca in maniera essenziale il posto del locutore, sottraendolo alle serie puramente biologiche: «trasformato in un vegliardo Zeno si trova di colpo oltre il confine di responsabilità, in una zona di franchigia», come osserva con acutezza Mario Lavagetto1 • È la zona del sembiante, a un tempo maschera e libertà, dove la voce di verità ha «un certo suono falso» («Che sia l'incapacità del vecchio?»2 ; a queste chiose d'autore va conferito, di là dall'apparenza, un segno aritmetico positivo). Di tale sembiante, o pr6sopon, che permette alla voce di risuonare «falsa» in quanto sulla strada della verità, dà una eccellente ipotiposi una nota di Svevo: Se a questo mondo non ci fossero dei vegliardi sarebbe possibile d'immaginare che dalla faccia rosea del bambino esprimente una vita ancora quasi informe, possa evolversi quella cartapecora dura eh'è la pallida faccia del vegliardo, tutta linee tratte dalla vita nel lungo tempo una dopo l'altra, senza riguardo all'armonia, delle quali qualcuna può significare pensiero, magari doloroso pensiero, altre dolore stesso della carne come si rattrappisce o si tende, perché denutrita o sovranutrita, tante cicatrici che cancellano le linee originali, a meno che per essere fatte dello stesso materiale, non ne producano la caricatura.3 Tuttavia non appoggerei troppo sull'intenzione dram158

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