Il piccolo Hans - anno XX - n. 77 - primavera 1993

che il condannato all'esilio intona svela profonda adesione alla lingua/legge della sua terra: Mowbray, al di fuori di quella lingua/nazione/legge si sente come morto. L'allargamento dell'orizzonte-mondo a partire dal Rinascimento, ha fatto sì che fra 1'800 e il '900, ormai create le condizioni per facili spostamenti intercontinentali, un gran numero d'intellettuali abbiano volontaristicamente scelto l'esilio o l'espatrio e abbiano eletto questa lacerazione come punto di non sutura da cui far sgorgare la scrittura. Fra i tanti testi dall'esilio e d'esilio del Novecento americano, ho scelto d'interagire con le domande inquietanti che la lettura di tre opere di Djuna Barnes suscita. Si tratta di due racconti, Cassation e La grande malade della raccolta A Night Among the Horses (1929, poi Spillway)1 e di un romanzo, Nightwood (1936). I tre testi hanno in comune la situazione di scrittura - l'esilio-, alcuni elementi autobiografici ed aspetti tematici e costruttivi che spingono a leggerli come «sistema», come «filosofia del déracinement», dello spaesamento linguistico ed esistenziale di alcuni personaggi. I due racconti sono narrati da un giovane io che vive gli avvenimenti: Katya, in Cassation narra di sé sedicenne a confronto con una donna matura che la vuole consacrare alla filosofia del silenzio e del nulla; Gaya, in La grande malade narra essenzialmente della sorella, Moydia, che ancòra adolescente vuole vivere in fretta e tragicamente. Il romanzo è narrato da un io extradiegetico, sebbene per lunghissime sezioni sia costruito sui discorsi-monologo del personaggio Matthew Dante O'Connor, ginecologo californiano d'origine irlandese il cui discorso, intessuto di metafore, ossimori, giustapposizioni e negazioni risulta comunque assimilabile al discorso del narratore eterodiegetico di cui pare una versione parodica e iperbolica. Il dottore, di notte, è un travestito che, come tutti i displa93

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