Il piccolo Hans - anno XX - n. 77 - primavera 1993

tem). Vita e morte sono unite: in Cristo (in morte) si toccano. La prospettiva è così estrema, da potersi facilmente capovolgere in eresia monofisita contraria a quella che postula nel Figlio la sola natura divina, togliendogli tutto il patimento della morte. Qui a cadere è il divino. Vista dal punto di vista del poeta, anche lui duellante, la posizione è fortemente antiorfeica. L'antiorfeicità è la forma specifica dell'eresia poetica: rifiutandosi al ritorno il poeta, come il morente, si rifiuta al dolore e alla nostalgia, che è dolore del ritorno. Si rifiuta alla memoria. Alla poesia non guarda più come all'oraziano monumento che sfida i secoli. Non c'è ritorno d'immortalità per lui: la poesia è porta che dà solo uscita. Come il morente, il poeta fa l'esperienza della futilità, addirittura dell'impossibilità, del viaggio, che per esser tale deve presupporre almeno idealmente il ritorno. «Ma misi me per l'alto mare aperto», dice Ulisse in Dante. Una volta entrato nella foce stretta di Gibilterra, tutto per lui è Occidente, nient'altro che Occidente. Così il flusso sanguigno ribollente di febbre conduce il morente che vi transita a vedere il suo Oriente: Cristo morto per lui. Oriente e Occidente sono uno, una volta varcato lo stretto, proprio come vita e morte sono una cosa sola per chi crede in Cristo. Per chi passa (sta), in quello stretto o strettoia - foce, uscita, issue, gate, centro - che è Cristo. Scrivere senza guardare mai all'indietro, è il sogno, l'utopia del poeta. Scrittura che stia in un punto solo, e sia un punto solo - come per Ulisse Occidente e Oriente, per il cristiano vita e morte - è scrittura nel e del presente. Scrittura che mima l'attimo nella parodia della durata per lo scrittore moderno, post-romantico. Scrittura che insistentemente si volge a Dio attraverso la figura di Cristo, per lo scrittore medievale e antiromantico, come al punto nel quale inizio e fine sono uno. Paola Colaiacomo 91

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