Il piccolo Hans - anno XX - n. 77 - primavera 1993

«Racconta una bella storia o ti uccido». È a questo favoloso e tirannico principio assoluto che si sottomette chi scrive? «Basta riflettere alla storia della letteratura moderna - osserva Fachinelli -, a quante volte vi ritornino, in opere talvolta decisive, le autodescrizioni degli scriventi in quanto scriventi, spesso ironiche, e poi le riscritture e gli autorifacimenti, per poter concludere che qui si tocca un nodo essenziale della questione». Da qui la rapida percezione di un limite, costituito dall'autobiografia e dal corpo di colui che scrive, è certo. Corpo incompiuto, vacillante, aperto, cioè scrivente... e irriducibile al solo linguaggio, o all'inconscio come procedimento linguistico (metafora e metonimia). Stato ambiguo e mal conosciuto, quindi, quello della coscienza alla ricerca della sua espressione attraverso il movimento continuo di produzione di un testo. Al limite, immersione, o una serie d'immersioni, in stato di mancanza; cosa che non significa necessariamente perdita della fede nei propri valori, pur nel vacillare del concetto stesso di verità. Scrivere è sempre scrivere oltre, pungolati da un demone (o dall'inconscio)... Scrivendo, può capitare che, invece di sprofondare nella giustificazione delle proprie opzioni e dei propri valori, cioè delle proprie alienazioni, si vada incontro all'imprevisto. Capita quando si scrive non per guadagnare qualcosa, ma per perdersi in quanto soggetto che già sa, e cercare di tracciare invece di citare. Insomma, si tratta di scendere davvero nell'arena della scrittura (Leiris, la scrittura come tauromachia; o Burroughs, quando dice che, scrivendo, teme di essere incornato, a differenza di quelli che fanno solo giochi di parole o, al limite, mitoanalisi: cazzari che fanno piroette senza il toro, un vero toro nero di scrittura). Ma non è questo l'aspetto più importante. Più importante è la «valutazione differenziata di quell'attività com175

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==