sessive» se non l'irruzione nel campo della coscienza d'elementi inviati da un «altrove». Già l'atto dello scrivere si configura come uno stato di «possessione», se non estatico. In effetti, scrivendo, a un certo punto si fa l'esperienza di momenti in cui si è come «ispirati», come «guidati», e questi momenti più o meno felici si oppongono a quelli della pena del giorno dopo,giorno, della fatica, dell'opera mille volte rimessa sul telaio di questo mestiere che è la scrittura. Chi, scrivendo, non ha mai fatto quest'esperienza? In una fase, quasi una boutade del suo Diario, André Gide esclama un giorno: «Oggi luciderò anche le mie scarpe in maniera geniale». E Moravia diceva di non essere interessato all'eternità dei suoi libri, perché era scrivendo che sperimentava come un senso di eternità. Cosa è successo? Qualcosa ha preso possesso di noi per distrarre il nostro io dal suo dolore o dalla sua realtà? E se si tratta di possessione, di trance scrittoria, perché non includerla in tutti quegli stati di modificazione dell'io definibili come Stati Modificati di Coscienza (ASC)? Non so neanch'io di quale demone sono preda. E vivo l'impulso a smettere di scrivere come una «tentazione». Forse cancellerò questo passaggio, retrocedo davanti alla confessione di considerarmi un posseduto. È, questo, un dispositivo specifico della scrittura, o meglio dell'atto dello scrivere, definito da Elvio Fachinelli, recentemente scomparso, come «complesso di operazioni, anche tecnico-materiali, che ha una propria specifica consistenza e che produce, in un movimento continuo, sia il testo socializzato che i suoi scarti e le sue varianti». Continua Fachinelli: «Diciamo però che questo insieme di operazioni, questo dispositivo specifico, tende a essere accantonato, dimenticato dallo scrivente, una volta terminata l'operazione di scrittura, per risorgere intatto, autonomo e molto spesso tiranno nella successiva occasione scrittoria». Viene irresistibilmente in mente la storia di Sherazade: 174
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