Il piccolo Hans - anno XX - n. 77 - primavera 1993

insieme. Lavoriamo ancor più duramente; e, scrivendo, vibriamo e preghiamo come quei musulmani che si orientano verso qualcosa: da quella parte, verso la Mecca, la Mecca del senso; perchè ad Oriente c'è qualcosa, non è vero? Si sente che c'è qualcosa, qualcosa che chiede un tributo... Ah, com'è strana la solitudine alla macchina da scrivere. E questo isolamento, che sottrae tempo alla vita, alla vera vita, e spesso costringe a vivere nel tempo degli intervalli degli altri, non assomiglia forse a un rito, a un rito di possessione? Nel poeta o nello scrittore, pittore o compositore, ma anche nel matematico e nello scienziato alle prese con un problema creativo da risolvere, il corpo, strumento dell'incarnazione, si riduce a una bocca o a una mano, quasi in attesa di un «dettato». Come scrivere tutto questo? È un'attesa «attiva», a cui è necessario il silenzio, la concentrazione, la solitudine. Come in una camera aneonica, dove si avverte solo il proprio respiro, pulsare. E si fa strada, ai limiti della percezione e ai limiti del soffio, quasi senza soffio (come uno yogi, o un feto) il pensiero dell'accettazione, l'attesa dell'autorizzazione a scrivere, da parte di chi? di cosa? Tutto un dispositivo, quasi una messa in condizione, prepara la venuta dell'ispirazione. Per esempio, il caffè servito ogni mattina alla stessa ora e nello stesso posto a Balzac, che senza questo rito non poteva cominciare a scrivere; l'abito speciale che rivestono alcuni scrittori, o gli orari accuratamente predisposti e certi dispositivi immutabili che sono loro necessari per «creare». Tutto ciò somiglia a quei riti d'approccio che, delimitando significativamente una porzione di spazio e di tempo, permettono ai posseduti di lasciare momentaneamente la loro realtà quotidiana. Certo non ho perso coscienza, o perlomeno posso, conti172

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