Il piccolo Hans - anno XX - n. 77 - primavera 1993

te alle memorie di Casanova» (p. 314). Quanto ai suoi scritti, il giudizio è ancora più drastico: Lawrence non arrivò mai a capire che le conversazioni e i dialoghi sono congegni preziosi, da costruire con amore; che dovrebbero fornire una chiave del carattere dei personaggi e portare avanti l'azione, invece di ritardarla, che dovrebbero essere oasi scintillanti, e non deserti di chiacchiere noiose (p. 309). Douglas a quell'epoca, in qualità di redattore della English Review, era incaricato dell'«odioso compito di fare i tagli». Tra i racconti da accorciare c'erano quelli di Lawrence, e questo può spiegare il suo impietoso giudizio. Ma se leggiamo un altro ritratto, quello di Joseph Conrad, ci rendiamo perfettamente conto di qual era il comportamento di Douglas verso le celebrità. Non una parola viene scambiata tra i due su argomenti letterari. L'incontro rievocato ha tutt'altro carattere. Siamo nel 1911. Douglas, di ritorno da un viaggio in Calabria in compagnia del suo giovane amico Eric (cui Looking Back è dedicato), scopre di essersi preso la malaria. È solo a Londra, giallo come un canarino, e distrutto dalla febbre. In stato di semincoscienza raggiunge Joseph Conrad nella sua casa di Ashford. Qui il racconto si interrompe, e Douglas ci informa dettagliatamente sull'evoluzione dei suoi sintomi, come se al posto di Conrad ci fosse uno qualunque dei suoi anonimi amici. Conrad, da parte sua, ricambia la visita con uguale freddezza: «se dovesse morire, sarei costretto a seppellirlo, immagino» scrive in una lettera a John Galsworthy. Né Douglas né Conrad prendono appunti durante la conversazione. Tantomeno rimpiangono di non averlo fatto. Edith Wharton invece, ostinatamente, cerca le ragioni di questi strani vuoti di memoria, che l'affliggono ogni :volta che si trova in mezzo a una «compagnia eleva148

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