Il piccolo Hans - anno XX - n. 77 - primavera 1993

spossessione dal sapere acquisito nel viaggio da città in città che, nel caso dell'artista, è «viaggio estetico nelle metamorfosi della forma»32 . Gli «eccessi linguistici» di Djuna Barnes non sono che segnali di vita, desiderio di sommuovere, dire l'innominabile, rappresentare l'irrapresentabile. Il non essere semplicemente una porta, in campo letterario, a riflettere che letteratura è questo e quello: pittura e drammatizzazione, immaginazione e sangue. Il dislocato, né qui né lì, in arte è spinto all'ibridazione, al superamento, all'innovazione, alla (trans) fusione, all'ambiguità, alla parola polisemica. Ambiguo è il meteco (il forestiero) e il meticcio (metà e metà), l'omosessuale. Viaggiatori come Djuna Barnes considerano ogni cosa, ogni città, come non propria, dell'altro, sentono come aliena questa e quella città. Sono lì ma ambiscono all'altrove, volgono gli occhi incessantemente ora indietro - alla terra d'origine - dando luogo alla scrittura evocativa, del (viaggio del)la memoria o dell'assenza di terra/passato, ora in avanti, alla nuova città, producendo in tal modo la scrittura del desiderio, quella del (viaggio del)l'immaginazione, quella che tramuta l'assenza in presenza33 . E se i luoghi della meteca sono quelli del silenzio, del polimorfismo, della possibilità, la parola meteca andrà ad occupare lo spazio fra superficie e profondità, illuminerà a sprazzi la penombra, ausculterà le pulsazioni segrete della città. Il soggetto in esilio non è d'altronde mai libero dalla pulsione aller-retour, dall'urgenza incessante ad andare e ritornare che stilisticamente si dà nella forma della ripetizione. Infinite possibilità nascono dalla condizione d'esilio: in quanto assenza, esso provoca la parola - la nostalgia suscita la parola evocatrice, la poesia. L'assenza provoca la (presenza della) scrittura che tenta di ricucire le lacerazioni ingenerate dalla dissidenza. 107

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