derna come scienza del bello, sul discrimine tra una determinazione dell'opera d'arte come composizione che trascende e occulta teatralmente il suo essere frutto di una produzione consapevole, e una che dell'intero così ottenuto fa il luogo di un procedere interno a delle leggi che permettono alla forma di dirsi compiuta. Un problema che attraversa, da Winckelmann a Diderot a Herder a Schiller, il percorso che con poche, notevoli eccezioni è stato inteso sino a pochi anni fa come processo di conquista, da parte dell'opera d'arte, della sua autonoma autoriflessività. A questo riguardo, può sorprendere che Celan riconosca in Mallarmé il lascito estremo di tale lignaggio. Ma qui Mallarmé è inteso come coerente propugnatore di una concezione dell'opera in cui l'io che la gode e produce è tratto fuori di sé, nella contemplazione di qualcosa che esiste "come se" fosse un prodotto della natura. "Naturale" e "artificiale" qui debbono scambiarsi le parti, non sopportano e non permettono l'isolamento dicotomico. Gli scarti improvvisi, le movenze fatiche e illocutorie del periodare di Celan danno per scontato ciò che forse si può prestare facilmente all'equivoco, e cioè che il tratto determinante dell'arte come tale, nel suo produrre un'opera che cancella la sua origine - Celan dirà che la poesia è Handwerk, "artigianato", ma anche "opera delle mani" - sta in una finalità che non è possibile intendere altrimenti che come unità contraddittoria: in quanto finalità della natura, essa apparentemente è un in sé, ma per l'io che la coglie come tale, nella posizione di spettatore, essa diviene medium dell'alienazione più radicale, dell'oblio di sé, del man, il "sì". Cionondimeno, l'arte è necessaria, e il suo passo al di fuori dell'umano è un cammino, si dice qui, che la poesia deve percorrere. È così, crediamo, a partire da una differenza che Celan non rimarca, ma che intesse l'intero arco del suo Meridiano, cioè la differenza tra creatura e opera, tra Lucile e Galatea. Differenza tracciata dall'unico 69
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