Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

stra, dobbiamo riconoscerlo, una forte inclinazione ad ammutolire. Una poesia si afferma - permettetemi, dopo tante formulazioni estreme, ancora anche questa - ai margini di se stessa: essa si richiama e si riprende incessantemente, per poter esistere, dal suo già-non-più nel suo ancor-sempre. Questo ancor-sempre non può esser altro che un parlare. Quindi non lingua in quanto tale, e presumibilmente nemmeno "corrispondenza" che muove dalla parola soltanto. Piuttosto lingua resa atto, liberata nel segno di una individuazione certo radicale, ma che rimane allo stesso tempo memore di un confine che è la lingua da costruire, delle possibilità che la lingua le ha aperto. Questo ancor-sempredella poesia lo possiamo certo trovare soltanto nella poesia di colui che non dimentica di parlare nell'angolo di inclinazione della propria esistenza, della propria creaturalità. Allora una poesia sarebbe, in modo più chiaro di prima, lingua di un singolo divenuta figura, presente e presenza per una essenza più intima. La poesia è sola. È sola e in cammino. Chi la scrive, rimane consegnato ad essa. Ma una poesia non sta forse appunto per questo, già qui, nell'incontro -nel segreto dell'incontro? La poesia vuole arrivare ad un altro, ha bisogno di questo altro, ha bisogno di ciò che le si fa innanz1. Lo ricerca, si rivolge ad esso. Per la poesia che si dirige verso l'altro, ogni cosa, ogni uomo è una figura di questo altro. L'attenzione che la poesia tenta di dedicare a tutto ciò che incontra, il suo più acuto senso per il dettaglio, per il contorno, la struttura, il colore, ma anche per i "tremiti", per i "cenni", tutto ciò non è credo conquista dell'occhio che gareggia (o rivaleggia) con apparecchi ogni giorno più perfetti, quanto piuttosto una concentrazione 61

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