Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

Si tratta, lo sapete da molto tempo, essa viene a voi ad ogni anno nuovo, della tanto spesso citata e non a caso - di Lucile. L'imprevisto che ha interrotto la conversazione s'impone senza alcun riguardo, raggiunge con noi la piazza della rivoluzione, "i carri arrivano e si fermano". I convenuti sono là, non ne manca uno, Danton, Camille, gli altri. Essi hanno tutti parole, anche qui, parole piene d'arte, ne fanno smercio, si paizla del comune andare-allamorte, qui Biichner non deve far altro che citare, Fabre vuole persino poter morire "due volte", ognuno è all'altezza, soltanto un paio di voci, "alcune voci" senza nome, trovano che tutto ciò sia "noioso e già accaduto un tempo". E qui, dove tutto è prossimo alla fine, nei lunghi istanti in cui Camille - no, non lui, non lui stesso, ma un convenuto - in cui questo Camille muore una morte teatrale - giambica, si vorrebbe quasi dire - una morte che noi soltanto due scene più tardi possiamo sentire come sua, a partire da una parola a lui estranea, a lui tanto vicina, quando attorno a Camille pathos e sentenza confermano il trionfo della "bambola" e del "filo", allora è Lucile, colei che verso l'arte è cieca, la stessa Lucile per la quale la lingua ha qualcosa di personale e percepibile, ancora una volta qui, con il suo improvviso "viva il Re!". Dopo tutte le parole rivolte alla tribuna (è il patibolo), che parola! È la replica, è la parola che strappa il "filo", la parola che non si inchina più davanti ai "fannulloni e i cavalli da parata della storia", è un atto di libertà. È un passo. Certo a tutta prima suona come un'adesione all'"ancien régime", e potrebbe non essere un caso, riguardo a ciò che ora, oggi, oso dire al proposito. Ma - permettete di rilevarlo, a chi è cresciuto anche con gli scritti di Peter Kropotkin e Gustav Landauer - qui non si rende omaggio alla monarchia e ad uno ieri che 53

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