Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

anch'essa, forse, metallica, anch'essa una macchina impietosa, irriverente. Giungiamo in quello che, a giudicare di quanto ne rimane, deve essere stato il centro operativo e abitativo di un sovkhos, di una fattoria statale. Ancora in piedi, sbocconcellati e traforati dai proiettili, tre edifici: in uno la sede di uno sperduto comando tedesco, con un grande magazzino viveri adibito al rifornimento delle truppe in transito da o verso la strada di ferro: nell'altro alloggeranno, per una notte, in attesa del treno che ci porterà a destinazione, i signori ufficiali; noi della truppa nel terzo. La piazza antistante è crivellata da enormi buche colme di fanghiglia giallastra; i segni di un combattimento di artiglierie pesanti, di altrettanto pesanti bombardamenti aerei. Nelle cavità, aperte in squarcio, si rispecchia, opaco, un cielo immutato, una bianca nuvola passeggera. Dal bosco vicino, anch'esso bruciacchiato, non un grido d'uccello; ma quando ci affacciamo ai suoi margini, tra la terra sconvolta, le formiche hanno già rifatto i loro nidi, si affrettano a trasportare pagliuzze, frammenti di foglie secche, e chissà che altro. La guerra ha lasciato intatta Heidelberg, adagiata sulle sponde del Neckar, verde di colline e di boschi. Si dice che gli americani l'abbiano risparmiata, e abbiano chiesto di risparmiarla ai loro alleati, perché già da tempo, preventivamente, avevano deciso di farne la sede del loro Quartier Generale nella Germania occupata. A Heidelberg ho trascorso, prima della chiamata alle armi, quasi un anno incantato: la nuova lingua di cui mi imbevevo, le lezioni all'Università, i caffè, leWeinstuben, tutta la musica di Mozart, nel suo centenario, i volti delle cento allieve, il loro sorriso, la loro grazia - a contrasto della goffaggine nazista dei pochi maschi giovani, esentati dall'esercito per gravi tare fisiche, già mutilati dalla 39

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