Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

gna da mille buche, dilabrate, come da una sanie, da trincee, camminamenti, ridotti: all'interno stagnava un tanfo umido, un'aria, dopo l'ardore esterno, di tomba. Sugli spiazzi antistanti, spezzoni di granate, di shrapnels, di proiettili, e resti consunti di uniformi, qua e là un residuo di ossa, di uomini o di muli, sfuggite, o tralasciate, da chi aveva raccolto il grosso per accumularlo, più lontano, negli ossari comuni. Noi due, e gli altri visitatori, ci aggiravamo muti, raccoglievamo qualche frammento di ottone, qualche piastrina arrugginita di riconoscimento. Nello scendere ci voltammo spesso, con un senso di angoscia, verso lo scempio di quelle montagne, il tradimento compiuto a quella che era stata, non molto tempo prima, la loro intatta, solitaria, bellezza. Pochi anni, e l'adolescente di allora, adesso in panni grigioverde, gli scarponi chiodati, attraversa, su una tradotta, la Russia Bianca e l'Ucraina per raggiungere, con gli altri soldati dell' ARMIR, il fronte del Don. Lungo la linea ferroviaria, ovunque attraversava il fittodei molti boschi, i tedeschi, per attenuare il rischio degli attacchi partigiani, avevano divelto, per una decina di metri da ambo i lati, le piante. Ne rimanevano in superficie, quasi raso terra, i ceppi dei tronchi, ancora qua e là - era di nuovo una estate afosa - stillanti di umori, di resine. Nel verde compatto della distesa di abeti, di larici, la ferrovia appariva, così slargata la sua area, una piaga insanabile, una violenza compiuta, ancora una volta, al silenzio, alla incantata solitudine, di una natura viva di mille fremiti, dei voli degli uccelli, della mobile trama degli insetti, dei loro ronzii, dei colori, delle lame di luce che si facevano strada tra il verde fitto dei rami. Prima ancora che invasori, portatori di morte, di un Paese remoto dal nostro, delle sue genti, avvertivamo il disagio di quella distruzione, motivata eppure inconsulta, che ci veniva in37

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