Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

La tenace teoria romantica, ripetuta da poeti e filosofi e ancora accolta da J. Lotman, per la quale la poesia è «l'immagine dell'infinito nel finito»19 , diviene specifica se è riferita a quel finito assoluto che è la cosa identica a se stessa, e a quell'infinito, configuratomusicalmente, che è il moltiplicarsi delle relazioni e delle suggestioni stabilito dal testo: il fiore, «meme et suave», «musicalement se lève». La musicalità poetica infatti nella sua essenza non è altro che il gioco dei richiami, delle rispondenze, delle equivalenze, delle relazioni e dei ritorni stabilito dal testo, e, sia che si effettui al livello del suono, come avviene nella poesia classica attraverso il metro, sia che si effettui al livello del senso come avviene nella poesia moderna, tanto che l'immagine visiva e l'immagine sonora sono in poesia una cosa sola. Ma il fiore del poeta allora sarà anche «l'absente de tous bouquets»: è sottratto alla realtà nel momento che è sottratto al nome. Solamente così, infatti, diviene pura immagine e perciò appartiene solo al linguaggio del poeta che lo dice così profondamente, mentre il linguaggio poetico, a sua volta e circolarmente, rinvia solo a quello che dice, e perciò è puro linguaggio, pura forma, svincolata dal rinvio alla realtà e chiusa invece in questo doppio rinvio. Eppure questo fiore irreale, questo fiore impensabile, e perciò soltanto «présenté à la divination», è anche la cosa evocata e chiamata attraverso un insistente vocativo. Non solo il poeta romantico, ma ancora il poeta contemporaneo chiama le cose in un ironico vocativo, come se esso fosse precisamente il luogo della cosa poetica: «Assodare bene il vocativo... / e in esso voi balzaste / ...cose / tutoyables à merci». L"'ingordo vocativo" dei poeti: è possibile rivolgersi al proprio Dolore, alla Notte, alla Luna, alle Isole, al Vocativo stesso? Eppure il vocativo rivolto alla cosa è una pratica poetica tanto comune che da solo basta a evocare il 194

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