Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

to: «...predicare altra cosa di esso non è possibile, nemmeno che è o che non è». In questo modo, attraverso la vocazione o l'evocazione, il nome proprio "dice" la cosa che il linguaggio umano non può dire pur dicendola sempre, la dice nel suo essere quella che è e la dice sottraendola al tempo e al linguaggio. Perché, se la natura del linguaggio umano è negativa, il nome proprio è negazione della negazione che diviene pura affermazione. Così delineata, sulla base degli studi di Jakobson e di Gardiner, la forma linguistica del nome proprio presenta tre aspetti essenziali: la negatività, la vocazione e la presenza o il presente. Questa forma si ripete in tutti i suoi aspetti nel linguaggio del mito e innanzitutto nell'atto di sottrazione della cosa al nome e al linguaggio. Anche l'oggetto del mito, l'oggetto primordiale, non ha nome, ed è pura apparizione, anzi, è sottratto al nome comune nel momento che viene chiamato con un nome proprio: non è un albero, è Dioniso11 • Tranne che il nome del mito è il nome proprio originario, quello dal quale, come spiegano gli specialisti di onomastica, tutti gli altri derivano12 , è il nome divino, che del mito è il nucleo centrale e potentemente attivo. Allo stesso modo, ma in forma molto più complessa, anche la poesia tende a eludere il nome "comune" e a farlo cadere. Quando J. Cohen osserva: «Il poeta non chiama mai le cose con il loro nome»13 , è giunto al più trasgressivo di quegli «écarts» del linguaggio poetico che va studiando, e se, sempre secondo Cohen, «tutte le figure, a tutti i livelli, si concludono e si compiono nella metafora»14, che cosa è la metafora se non il modo essenziale che il poeta ha di eludere il nome e di lasciarlo cadere? In un saggio molto bello sulla comparazione in Baudelaire Stefano Agosti sembra giungere alla stessa conclu191

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