Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

lo per questo può dire la cosa unica e identica a se stessa: la cosa ineffabile alla quale restituisce l'ineffabilità. Eppure il nome proprio, in quanto C/C, è, nello stesso tempo, puro nome, puro linguaggio, pura forma, ed è appunto in quanto pura forma che raggiunge il suo irraggiungibile oggetto e lo chiama. "Lo chiama" perché, al di là di ogni pratica frivola o contingente, è la vocazione che decide della denominazione. Tornando appunto all'atto della denominazione, non si dà il nome per fornire "un gancio" alla descrizione definita, né per distinguere, come si fa attraverso un numero nei carceri o negli ospedali: si dà il nome per poter chiamare, tanto che anche il nome del luogo, nella sua forma più arcaica ed esemplare, nasconde il nome, invocato, di un dio. Così l'oggetto del nome proprio non è più un "oggetto", ma è un tu, cioè è il termine di un riconoscimento, di un affetto, di un rapporto: è insieme una seconda e una terza persona,ed è per questo che non corrisponde alla terza persona della descrizione definìta. Ma se la terza persona designa, secondo il linguista, «colui che è assente»10 , il tu appartiene invece al presente linguistico ed è per ciò, sempre per la sua doppia natura, che il nome proprio indica, anche nell'assenza, una presenza, e lo sa bene chi chiama un nome invocato: viene da qui la potenza del nome, nota agli amanti così come ai popoli primitivi. L'atto della denominazione ha fissato un presente, ha sottratto al tempo il suo oggetto e gli Antichi lo presentivano quando chiamavano il nome "immortale", così come lo sa ogni religione quando prega nel nome, cioè nella presenza, del dio. Resta da aggiungere che, se veramente il nome proprio comporta un tu ed una presenza, diviene irrilevante che il suo oggetto sia reale o irreale: in questo senso cioè il nome proprio è indifferente all'essere o al non-essere, e veramente, come nel passo citato del Teete190

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