Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

do dico queste cose, e le ho dette non soltanto qui, ma anche in Gran Bretagna, in Francia, in Scandinavia, in Polonia, in Cecoslovacchia e in Germania. Forse anche in Messico. Non ricordo se le ho dette in Messico. Paradossalmente io non rappresento soltanto l'unico esito positivo di quel raid ma anche uno dei suoi innumerevoli fallimenti. Fu fatto tutto il possibile per farmi morire, ma non morii. Non che i bombardieri sapessero dove mi trovavo e stessero attenti a non farmi male. Non sapevano e non si preoccupavano di dove la gente si potesse trovare. I leader delle loro nazioni speravano che bruciassero integralmente la città e uccidessero quanta più gente possibile con il fuoco, il fumo, la mancanza di ossigeno o con tutti e tre insieme. Lo stesso piano di Hiroshima, ma con una tecnologia primitiva e con una popolazione di bianchi. Capisco perfettamente perché i bombardieri non facessero alcuna distinzione tra le persone o le cose che si trovavano sotto di loro. Avevano un unico scopo: chiunque si trovasse là sotto, sia che sostenesse attivamente Hitler o semplicemente non fosse in grado di rovesciarlo, stava più o meno direttamente svolgendo un ruolo, per quanto piccolo, nei crimini nazisti contro l'umanità. Io e gli altri novantanove soldati americani del mio piccolo distaccamento di Dresda lavoravamo in una fabbrica che produceva uno sciroppo di malto mescolato a vitamine destinato alle donne incinte che avrebbero partorito altri spietati guerrieri. Se non altro non eravamo volontari. Eravamo costretti a lavorare sotto sorveglianza per il nostro sostentamento, come precisato dagli articoli della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Se fossimo stati sottufficiali o ufficiali non saremmo stati obbligati a lavorare e non ci saremmo trovati a Dresda ma in qualche grande prigione persa nelle campagne. Ho detto di aver ricevuto, fino a oggi, circa cinque dollari per ogni cadavere prodotto da quella tempesta di fuo157

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==