civiltà americana e dunque occidentale (se non, oramai, del Nord del mondo), così come essa si presentava come facile obiettivo polemico nella propagandistica dello stesso Kennedy; una società schiacciata nella disumanità del1'alta tecnologia, tirannica e guerrafondaia (raffigurata in questo libro nel Reich), nell'ordine (di casta, di razza, di classe) rigoroso e presunto incontrovertibile, pur nella sua facciata blandamente umanizzata (cui presta i propri allegorici uffici il sociale nipponico dei PSA) e riproducentesi nell'abbandono sistematico, progressivo e colpevole delle masse di diseredati (ricacciati, in The Man in the High Castle nei Rocky Mountain States; nella realtà nell'inferno dell'indicibile). Quanto poi questo «mondo uno», quello allestito da Philip K. Dick, abbia saputo prendersi le sue rivalse sul «mondo zero», non è tanto da accreditare a virtù profetiche del suo autore quanto a quel gioco delle probabilità, diciamo pure all'alternarsi dei cambiamenti, che, sortendo da un'approfondita e pertanto spietata analisi del reale, riconnette immediatamente a quella sostanza traumatica che dalla fine della seconda guerra mondiale continua a impiastricciare la nostra Storia. Fatto si è che, se nel libro il mondo alternato descritto nasce dall'assassinio di Franklin D. Roosevelt, il «mondo zero» farà trascorrere poco più di un anno dalla pubblicazione di The Man in the High Castle prima di consumare l'omicidio dello stesso presidente John F. Kennedy, il cui programma esplicitamente si ricollegava alla tradizione democratica rooseveltiana. La Storia, di poi, quella nella quale tutti sentiamo di essere immersi, s'è dipanata come sappiamo. Ma sarà dunque lecito, giunti a tanto, riproporre in altri termini quella domanda sulla historicity che ha precedentemente bilanciato, in un moto oscillatorio, l'alternarsi dei mondi, nelle difficoltà concrete che abbiamo incontrato nel riconoscere, all'interno delle strategie narrative, il/atto dal contraffatto. Vale a dire, dove agisce la scimmia 83 r ì
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