Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 72 - inverno 1991-1992

Berlino, metropolitana di Roma, subway di Parigi - al Villaggio Globale Postmoderno: quella, rilevata anche da Fredric Jameson, della «perdita di profondità» (e, potremmo aggiungere, di «condanna all'orizzontalità»). In effetti non si dà profondità della profondità: sottoterra, paradossalmente, il traffico è tutto di superficie. Non si dà ascesa né caduta: tutto si svolge non allo stesso livello ma in assenza di un livello zero (cos'è il mare sottoterra?). In più, i punti di riferimento sono pochi: nella città sotterranea, se ci si sposta dai «poli» (le stazioni) verso le zone buie della «rete» ogni percorso è un'avanscoperta: non esistono mappe, non c'è un sapere topologico ufficializzabile; è come muoversi in una città priva di toponomastica (Tokyo), è come essere cartografi in una landa primitiva, in un pianeta inesplorato. L'esperienza comune non ha più senso, underground. Il tempo è sospeso, lo spazio è livellato: proprio come succede al cinema. La caverna metropolitana, orizzontale e acronica, è un'ennesima metafora del cinema? La città anacronistica e il cinema postmoderno In superficie, nella sovra-città, le cose non vanno diversamente. L'ambiente urbano è già paesaggio, è già natura, oggetto, dissidio, trappola: organismo alieno e mutante, la città è «la cosa» che ci abita mentre crediamo di abitarla. La metropoli non ha cittadini: non ha memoria, è un palinsesto continuamente grattato e riscritto (come in quel video di David Bowie interamente occupato da vecchi grattacieli abbattuti con la dinamite: il «bum bum bum» di Charles Jencks). La città non è più a misura d'uomo perché è l'uomo a non essere più misura di tutte le cose. Gli umani sono già alieni, visitors, vampiri alla Matheson: posseduti dalla «cosa», abitano la cosa-dolce-cosa. È sempre stato così. La città è sempre già stata persa, distrutta: Parigi brucia da sempre; se non bruciasse, il ci111

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