Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 71 - autunno 1991

Il tentato suicidio di Orazio alla vista di Amleto morente mi colpisce come uno dei momenti più oscuri e negativi tra i tanti della tragedia: A: «Orazio, son morto. Tu vivi. Racconta di me e della mia storia in modo onesto A coloro che non la conoscono». O: «Ah, non crederlo! Somiglio più a un antico romano che a un danese: e qui c'è rimasto qualcosa da bere»1 • Dobbiamo forse associare Orazio a Eros, il seguace di Antonio che si toglie la vita per «sfuggire al dolore I della morte di Antonio», o ad altri eroi che si sacrificano ad una cultura della vergogna? Il regno e la corte del vile Claudio sembrano costituirsi più come una cultura della colpa, ed è difficile che Orazio, nonostante la sua professione di identità, vi sia giunto da una delle tragedie romane di Shakespeare. Il desiderio di Orazio di morire con Amleto deriva piuttosto da una forma di contaminazione da parte del pubblico, componente chiave nella Tragedia di Amleto, Principe di Danimarca. Come lago scrive una tragedia che vede Otello e Desdemona come protagonisti, come Edmund con Gloucester e Edgar, così Shakespeare scrive un dramma in cui Orazio e noi stessi figuriamo come interpreti principali. L'istinto di morte di Freud al di là del principio del piacere è un tropo iperbolico che siamo restii a riconoscere come tale, così come ci è difficile vedere nell'impulso suicida di Orazio una metafora di quella piccola morte che ogni volta ci consuma in coincidenza con la fine apocalittica di un leader carismatico. In questo senso, l'atto di Orazio non assomiglia a quello del suicida Eros di Antonio e Cleopatra, ma alla volontà di autocastrazione di Walt Whitman, che nella sua straordinaria elegia su Lincoln - in assoluto una delle più belle poesie americane mai scritte - rinuncia al sim189

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