Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 71 - autunno 1991

non subisce evoluzioni. Giacobbe-e Achilie si presentano a noi senza subire metamorfosi. Lear e Macbeth, Amleto e Otello si trasformano non solo in virtù delle loro azioni, ma anche grazie alle loro parole, parole che essi segretamente ascoltano, sia che parlino a se stessi sia ad altri. La riflessione su ciò che essi stessi hanno detto li porta a voler cambiare, e in effetti il cambiamento avviene, talvolta in modo bizzarro, ma pur sempre convincente. O altrimenti subiscono involontariamente delle trasformazioni, prodotte dalla reazione non tanto al loro linguaggio quanto al rapporto che essi hanno instaurato con il loro linguaggio. Non credo sia utile affermare che Shakespeare fu maestro nell'imitare elementi propri del nostro carattere; si potrebbe piuttosto sostenere che egli riuscì a far emergere aspetti in precedenza celati o sconosciuti alla rappresentazione. Il che non vuol dire che Shakespeare sia Dio, ma ci ricorda che comunque nemmeno il linguaggio lo è. La mimesi del carattere nei drammi di Shakespeare ci appare oggi normativa, e in effetti, come tacitamente e con una certa riluttanza ammise un acuto osservatore quale Ben Jonson, si impose sin dall'inizio come il modo mimetico universalmente riconosciuto. Eppure, la rappresentazione shakespeariana mostra sorprendentemente di aver poco in comune con l'imitazione della realtà in Ben Jonson o in Christopher Marlowe. Se vogliamo rintracciare le radici dell'originalità di Shakespeare nel ritrarre uomini e donne in uno qualunque dei suoi antecedenti, è piuttosto a Geoffrey Chaucer e ai suoi Canterbury Tales che dobbiamo guardare. Il superbo e crudele Pardoner di Chaucer si ascolta mentre narra il suo racconto e prova il suo beffardo discorso, ed è questo ascoltarsi che lo incoraggia a dimenticare se stesso, e a esortare con entusiasmo gli altri pellegrini a farsi avanti così che lui possa poi derubarli. La coscienza di sé e l'idea ormai degenerata in forme apocalittiche della caduta spirituale, prelu179

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