Il piccolo Hans - anno XVII - n. 69 - primavera 1991

dal fatto che i due principali protagonisti, Perottino e Gismondo, nel trattaredell'amore «in generale» fanno esplicito riferimento a una esperienza personale, rispettivamente, infelice e felice. Né è detto, a conferma di ciò - osserva ancora Dionisotti - che «la disperazione di Perottino e l'euforia di Gismondo possano riuscire temperate dalle superiori dottrine neoplatoniche e mistiche del terzo giovane, Lavinello, e dell'eremita»3 che si figura esporle in prima persona, anche se più tardi (ma su questo ritorneremo) Baldassar Castiglione, nel suo Cortegiano le riprende ampiamente, attribuendole al Bembo e proprie di lui. In realtà l'intento del Bembo negli Asolani non sembra tanto quello di intervenire anch'egli nella disputa sull'amore allora accesa nella cultura rinascimentale italiana, quanto piuttosto di darci, con la sua opera, una testimonianza diretta - contro l'umanesimo latineggiante - delle possibilità e capacità del «volgare»: anzi, specificamente, di quella lingua che traeva la sua ascendenza dai grandi scrittori fiorentini del Trecento: Petrarca e Boccaccio. Sarà la tesi sostenuta e argomentata nelle Prose, ove la forma dialogica ricopre a mala pena la volontà, da parte del Bembo, di dare opera a un vero e proprio «trattato» che si augurava fosse il primo - non potendo prevedere la pubblicazione, da parte del Fortunio, delle sue Regole4 - a fissare non solo il lessico, ma soprattutto la grammatica di quella «volgar lingua» il cui impiego nella produzione letteraria, caldeggiava. Gli Asolani appaiono perciò, anzitutto, come una testimonianza, in prosa e in versi, della capacità espressiva di un volgare che si ispirasse ai grandi autori del Trecento che il Bembo privilegiava e assumeva a modello. E se le poesie ampiamente inserite nel testo - e in parte riprese dall'autore nell'edizione delle proprie Rime - si professano palesemente debitrici al Petrarca, non è difficile scorgere come dal Boccaccio, al di là della scelta dello 99

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