Il piccolo Hans - anno XVII - n. 69 - primavera 1991

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 69 primavera 1991 Virginia Finzi Ghisi 5 L'io scuoiato Giuliano Gramigna 7 Una passione nel deserto ossia un amore meno che umano Italo Viola 22 Il Tasso ovvero della passione Virginia Finzi Ghisi 47 Cefalòpodo, o l'amore senza ostacolo (Considerazioni sul romanzo familiare e trasformazioni del luogo della fobia) Mario Spinella 97 Gli amori in prosa e in rima del Cardinal Pietro Bembo Fausta Garavini 113 Montaigne e la mise en je Gianfranco Gabetta 135 Ignota latebat. Vico e la scienza con le tempie alate forge Canestri 160 La Tu assione del a lingua originaria nella letteratura e nella psicoanalisi Glauco Carloni 187 La pulsione filiale, la sessualità e i suoi mutamenti Jean-Michel Rey 203 L'autore e i suoi doppi STANZE Wilfred Rupert Bion 217 Note su memoria e desiderio MINUTE Giuseppe Maffei 222 Leggendo Anzieu: Matilde Monteleone su «Enveloppe» e rete dei significanti

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola a questo numero hanno collaborato: Wilfred Rupert Bion, Parthenope Bion Talamo, Jorge Canestri, Glauco Carboni, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Gianfranco Gabetta, Fausta Garavini, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Giuseppe Maffei, Matilde Monteleone, Jean-Michel Rey, Mario Spinella, Italo Viola redazione: Corso Matteotti 1/A, 20121 Milano, te!. (02) 794515 editore: Moretti e Vitali editori, Viale Vittorio Emanuele 67 24100 Bergamo, te!. (035) 239104 abbonamento annuo 1991 (4 fascicoli): lire 50.000, estero lire 52.500. Conto corrente postale 11196243 o assegno bancario intestato a: Moretti e Vitali, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano coordinamento editoriale: Rodolfo Montuoro stampa: Grafitai, Via Borghetto 13, 24020 Torre Boldone (BG)

L'io scuoiato L'ultimo quadro è una Pietà. Ma di pietà ce n'è ben poca in Tiziano, se gran parte delle sue opere gli vengono rifiutate perché troppo crude o rivelatrici. E le opere rifiutate Tiziano le firma e le tiene per sé. Il penultimo quadro è uno scuoiamento. Marsia ha perso la gara con Apollo e il vinto paga pegno. Accanto, seduta, è la figura di un vecchio che osserva e si usa leggerla come quella di Tiziano stesso, pacato e al di fuori della mischia. Ma l'occhio che guarda lo spettatore è quello di Marsia rovesciato con i piedi in alto e la testa vicino a terra. È un occhio ritratto in modo che segua i movimenti di chi si sposta davanti al quadro. Un occhio solo. L'altro, ce l'ha in bocca un cagnolino. Questi sono in realtà i due occhi di Tiziano, uno che conosce il committente e l'altro non importa in pasto di chi è. Se Tiziano è la figura di vecchio seduto, Tiziano è anche la figura dal corpo scuoiato. E lo sguardo distaccato del vecchio guarda se stesso, uno terrorizzato dalla paura della peste, dalla vicinanza della morte, spellato da quella che gli altri leggono come una ripetuta sconfitta. Ma a morire di peste è suo figlio. E l'unico occhio di Marsia è 5

abbastanza lucido da prendersi l'ultima vendetta. Le «forme estreme dell'amore» riguardano innanzi tutto la messa in gioco del soggetto da parte di se stesso. Non appartengono perciò al perverso che non ha accesso alla verità e che non è capace di «estremi» ma solo di sentimenti meschini. Ciò che lo tocca non sta per morire ma è già morto. Se la psicoanalisi ha lasciato alla patologia, e alla perversione che solo le parodizza, queste tre parole, è perché ha optato a sua volta per la «mitigazione», per quelle che si chiamano secondo Freud potenze psichiche, il rispetto, il disgusto, la compassione, mitigazioni delle mète sessuali. Ritrovare per il soggetto le punte estreme dell'amore fisico e dell'amore intellettuale e farle coesistere, vuol dire perciò anche ripercorrere la storia della psicoanalisi e ripartire forse dal punto estremo della sofferenza di Freud, vecchio, esiliato a Londra, martoriato dal cancro alla lingua, ma improvvisamente capace di togliere da un lavoro incompiuto un «se» ambiguo e conciliante, e di ridare vigore ed eroicità al suo analizzato prediletto. Virginia Pinzi Ghisi 6

Una passione nel deserto ossia: un amore meno che umano «Credete che le bestie siano sprovviste del tutto di passioni? Sappiate che possiamo dare loro tutti i vizi propri al nostro stato di civiltà...». Le frasi che ho citato, all'inizio del racconto balzacchiano Une passion dans le désert, che comparve sulla «Revue de Paris» nel dicembre 1830 (ancorché in coda al testo si legga: 1832), sono da prendere con qualche prudenza. Certo, la prima enuncia il tema stesso del racconto, appunto una «passione», una passion animale; ma quanto ai «vizi» che l'uomo civilizzato impresterebbe, o addirittura imporrebbe, alla bestia, per dir meglio, quanto al processo informativo, di imprinting magari corruttore derivante dal contatto umano, il testo di Balzac non dice proprio nulla. Semmai, esso fonda la propria originalità sulla sostanziale equivalenza fra umano e animale - a livello, appunto, della passione. Nello stesso tempo, si esclude dal ventaglio delle letture anche quella che configuri Une passion dans le désert come il referto di una perversione. Più che di fissazione regressiva, conviene parlare, qui, di una ricapitolazione originaria della sessualità - basti notare il dato, su cui tornerò, dell'«odore». Per il momento, si potrà dire che 7

è sulla passion tout court che verte il discorso. Ma per chiarire i riferimenti a chi non abbia subito presente la storia di Une passion dans le désert, sommarizzerò rozzamente precisando che essa racconta dell'imprevedibile legame affettivo nato fra una pantera e un soldato francese, sfuggito nel deserto ai suoi catturatori arabi, durante la campagna d'Egitto di Napoleone; vero e proprio romanzo erotico, con tutti gli abbandoni e le intransigenze, fino alla conclusione funesta. Il titolino iniziale del racconto, che vale un poco da esergo, aiuta a indirizzare la lettura: «histoire naturelle d'une histoire surnaturelle» - se appena quel «surnaturelle» lo si capovolga in un «al di sotto», come del resto ho voluto intestare questo mio intervento: «un amore meno che umano», cioè sottratto alle convenzioni, alle garanzie, alla «riconoscibilità», che conferiamo in blocco con la semplice assunzione dell'etichetta di «amore umano». Sessualità e zoologia Dunque, qualcosa che investe la periferia, o se si preferisce, il nocciolo, normalmente escluso, della questione. Quel che tenterò di fare sarà di vedere come si inscriva, nel racconto balzacchiano, la diversità non solo sessuale ma per dir così zoologica, ossia pertinente all'assegnazione ai diversi rami della grande famiglia dei viventi. Il che, in sostanza, significa interrogarsi su questo: c'è un desiderio che si possa qualificare animale, in quanto distinto da quello umano? Che cosa risponde, in concreto, il testo di Balzac a questa domanda? E come? Il carattere estremo, ossia abnorme, della passione su cui si regge il racconto, non discende soltanto dalla peculiarità della coppia inscenata (soldato/pantera, uomo/animale) ma dalle modalità del suo articolarsi; e secondo analisi corretta, trattandosi di una fiction, è nella strutturazione diegetica del racconto stesso che vanno via 8

via rilevate, e identificate. Posso anche anticipare che proprio nella forma dello scioglimento della storia tale carattere si farà, tecnicamente, visibile. Funzioni della tecnica narrativa In partenza, non è superfluo prendere atto del particolare schema narrativo adottato da Balzac in Une passion dans le désert: che è poi quello, a lui abbastanza familiare, del racconto dentro il racconto, di un racconto secondo incistato all'interno di un racconto primo. I rimandi che vengono alla mente sono quelli di Sarrasine e della Grande Bretèche. Anche se, rispetto a Sarrasine, il racconto primo o inglobante di Une passion è molto più esiguo, una semplice cornice, esso ha un punto di contatto essenziale con la storia della Zambinella: in entrambi i casi il «racconto contenuto» ha il carattere di pegno erotico. Esso viene offerto dal suo emittente (addirittura, in Une passion, dal suo estensore - il narratore extradiegetico, per usare la terminologia di Genette, mette in carta la «confidence du soldat», la vicenda quale gli è stata raccontata dal protagonista) come mezzo per ottenere alla fine i favori della donna incuriosita - intento peraltro mancato, in Serrasine, come ognuno sa. Ma è proprio tale funzione di medium libidico deferita al racconto a connettersi, non casualmente, con i contenuti, ossia con i significati ultimi dei due testi: che peraltro riguardano entrambi qualcosa di eccezionale nell'ordine della passione, o come direbbe Balzac, di surnaturel. Livellodiegetico e livellometadiegetico, che è appunto quello della vicenda del soldato e della pantera; racconto a sua volta, rispetto al primario, omodiegetico, giacché concerne un personaggio di quello... come vedete sto baloccandomi un po' con la terminologia genettiana, ma solamente per sottolineare che qui la scelta delle forme narrative ha a che fare con ciò che viene raccontato: in9

ternandosi di un doppio grado di distanziazione finzionale, il rapporto soldato/pantera sembra recidere supplementarmente i legami con la normalità di ciò che è diretto, immediatamente collegabile a un armamentario di dati. Intendo dire che anche la tecnica dei livelli disgradanti concorre a costituire il luogo nel quale possa prodursi l'abnorme, o come preferirei dire, il nostro caso forte. Esso si cerchia come nel fondo di un cannocchiale capovolto. Il luogo di Eros Questo luogo diegetico ostentatorio ha peraltro un nome - un nome addirittura geografico!: è il deserto. Accanto a una giustificazione logica (dove potrebbe darsi, se non nel deserto, un connubio per dir così allo stato puro, uomo/belva), ne esibisce una metalogica della propria necessità. Certo è il luogo dove il soldato smarrito deve fare i conti con la presenza della pantera - eppoi addirittura farne ménage, mentre aspetta l'improbabile comparsa dei commilitoni; ed è pure il luogo (comune) letterario che consente a Balzac qualche envolée lirico-descrittiva, nel gusto, peraltro discreto, dell'«orientalismo» d'epoca. Ma esso è soprattutto - intendo ai fini di questa nota - un luogo dell'ordine simbolico, e lo dichiara l'ultima battuta del racconto, di bocca del vecchio soldato impazientito: «C'est le Dieu sans les hommes... ». Che va letto, io credo, così: il luogo, fuori dai limiti ma anche dalle protezioni costruiti dall'uomo, dove domina esclusivamente Dio: ma appunto, il dio Eros, padrone assoluto come la morte. Da una gatta a... Una prima analisi linguistico-figurale del racconto porta 10

alla luce il processo con cui Balzac umanizza la pantera, o per essere più precisi, la trasforma in «donna», in «amante», secondo i gradi crescenti della civetteria femminile. Già l'identificazione con una «gatta» («une chatte couchée sur le coussin d'une ottomane») l'ascrive a un'animalità domestica e in qualche modo antropomorfizzata - senza contare che «chatte» è appellativo del linguaggio erotico umano. Ma la successione è sempre più significativa: «petite maitresse», «la plus jolie des femmes», «c'était joli comme une femme», '«une vague rassemblance avec la physionomie d'une femme artificieuse», fino a «ma petite blonde» e all'attribuzione di una sovranità libidica incontestabile: «courtisane impérieuse», «sultane du désert». In parallelo, si snodano i rimandi ai campi della «grace», della «mollesse», della «coquetterie». Le picchiettature del manto sulle zampe formano dei «jolis bracelets»; gli anelli bianchi e neri della coda brillano «comme pierreries»; la testa risalta con una «rare expression de finesse»; e a interrompere giochi e civetterie animali, in un punto nodale del racconto, erompe un «grondement» di autentica gelosia... Il processo che ho indicato è piuttosto curioso perché in certo senso contraddittorio rispetto al fondo del racconto. Esso tende a una metaforizzazione dell'animale, a una riduzione finale della pantera in figura retorica del linguaggio amoroso - tanto d'«amor cortese» quanto di corrente intimità quotidiana; dove appunto l'amata, per inaccessibilità araldica o aggressività carnale, sopporta l'immagine della «bella fiera», della «tigre» o della «pantera», secondo terminologia vulgata. Su questa strada il racconto si fa normalizzatore; diventa, insomma, un discorso che «raffigura», secondo corrispondenze retoriche convenzionali, le strutture di un topos, appunto la «passione amorosa». Ma io credo che ciò sia deviante dal nocciolo duro del11

la trovata balzacchiana. Non c'è dubbio che la pantera sia un simulacro, un Vorbild, qualcosa innalzatoci davanti a significare al posto di qualcosa d'altro. La sua potenza di immagine è testimoniata dal forte valore di stimolazione erotica visiva di cui si rivestono tutte le descrizioni che la riguardano. Ma il rapporto con ciò che essa scherma o sostituisce, non può essere illuminato dal «discorso di corrispondenze» cui accennavo poco fa. Si tratta, allora, di ritornare al nocciolo duro dell'invenzione - alla sua intenzione. La Cosa impenetrabile Anticipando un momento, direi così: è l'intenzione di proporre la Cosa impenetrabile. Il primo incontro dei due «amanti» (il soldato e la pantera) avviene, non per caso, in una caverna dove il soldato ha cercato rifugio al cadere della notte: insomma, una caverna che potrebbe anche essere quella dell'allegoria platonica, perché in fondo che cosa vi ha luogo se non un atto di conoscenza, con le sue incertezze e i suoi errori? Ridestandosi a metà della notte, il soldato percepisce nel buio l'«accento alternativo» di una respirazione potente, la cui «energia selvaggia non poteva appartenere a nessun essere umano». Poi man mano, nero su nero, si disegna l'enorme massa di un vivente accovacciato a pochi passi di distanza. L'ospite della caverna si presenta appunto come Cosa impenetrabile non soltanto per effetto del buio, lo smarrimento naturale del primo risveglio, ben più per una sorta di refrattarietà a qualsiasi collocazione immaginaria. Il tratto non-umano dell'«energie sauvage» si congiunge con quello di un odore «penetrante», «grave», che va riempiendo la caverna. Ma né l'uno né l'altro tratto sembrano preordinati a rinviare subito a una classificazione 12

zoologica. Qui si installa un'entità indeterminabile, primaria, sottolineata proprio dalla dominante dell'odore - che istintivamente mettiamo in rapporto con quel passaggio freudiano del Disagio della civiltà sulla svalutazione dell'olfatto rispetto alla sessualità, nel corso dell'evoluzione dell'uomo. La pervasività dell'odore inatteso, con effetto dirò così estatico (esso non solo riempie il soldato di un terrore contiguo alla fascinazione - «quand l'eut degustée du nez... » - ma rappresenta per lui l'anticamera della conoscenza), è un segnale forte per il protagonista della storia non meno che per il lettore. Se la percezione di un accumulo d'energia vitale era stata effetto di una sensibilità prossemica, anch'essa in qualche modo animale, e l'olfatto poi chiamato in causa, di una specie di fulminea regressione - alla fine spetta alla vista di pervenire al riconoscimento della realtà: un riverbero di luna scopre nella caverna il manto picchiettato di una pantera. «Quel leone d'Egitto dormiva, arrotolato su se stesso come un grosso cane...». La Cosa si è ritirata per il momento, dietro l'ordine dell'«histoire naturelle». Chi è il sedotto? Chi è il seduttore? È una domanda pertinente, anzi centrale all'intenzione di questa nota. Il primo atto seduttorio nasce, secondo il testo, come gesto disperato di difesa. La pantera s'avvicina al soldato, e questi la fissa con un'aria affettuosa, quasi per magnetizzarla, «e con un movimento dolce, amoroso, quasi avesse voluto accarezzare la più graziosa delle donne, le passò la mano lungo tutto il corpo, dalla testa alla coda, titillando con la punta delle unghie le vertebre del dorso... La belva drizzò voluttuosamente la coda, gli occhi le 13

si addolcirono... Il soldato, rendendosi conto dell'importanza delle sue carezze, le raddoppiò così da stordire, da inebriare quella cortigiana imperiosa...». È l'unica risorsa che il soldato abbia escogitato per prevenire un'aggressione della belva. Ma forse il testo si lascia sfuggire qualche cosa di più, quando accenna di volo a un effetto ipnotico di soggiogamento che la sola presenza della pantera esercita sul compagno occasionale. Poco oltre, davanti ai movimenti graziosi, e delicati, pieni di civetteria naturale, il soldato si troverà ad esclamare: «C'est comme une petite maitresse! ». Ma la funzione autoprotettiva dello sfruttamento della sensualità animale non dura molto. Carezze e lezii diventano fine a se stessi, un gioco poi addirittura una passione («enfin il se passiona pour sa panthère»). Il rapporto muta, il seduttore scivola senza resistenze nel ruolo di sedotto. La pantera moltiplica le proprie esibizioni: folleggia («folatrer» è verbo con intenzionalità erotica), salta, striscia, si raccoglie, si rotola... È la messa in scena del desiderio della «sultane»: desiderio imperioso, esclusivo, come provano almeno due episodi. L'inseguimento del soldato, che tenta un ultimo scampo - inseguimento che si risolverà in resa totale, e non senza gratitudine, visto che è la pantera a salvare il suo partner dalle sabbie mobili addentandolo al colletto. E l'episodio dello scoppio di gelosia dell'animale, che non può tollerare che l'uomo, durante uno dei loro teteà-tete, si distragga a seguire il volo di un'aquila. «Je crois, Dieu m'emporte, qu'elle est jalouse» commenta il soldato; e poco prima aveva ammesso: «il est flatteur d'avoir son premier amour». Momento cruciale, molto più di quanto non ammetta l'economia apparente del racconto; cruciale ai fini del discorso che abbozzo con la mediazione di un testo letterario. Ciò che la pantera significa qui è, né più né meno, che l'esigenza insopprimibile di vedere il proprio desiderio 14

riconosciuto dall'altro. Frammezzo ai segni dell'esotismo, dell'avventura, se si vuole di una «histoire naturelle sensationnelle», il lettore intravede non solo qualche forma della dialettica amorosa, ma, quantunque proiettata su uno schermo improprio, dell'articolazione del soggetto. Una Lustpumpe Sto prendendomi troppi arbitri rispetto alla lettera di Une passion dans le désert? A meno che non sia piuttosto un arbitrio che ne riguarda lo spirito, ma che la lettera permette. In ogni caso questo è un racconto trompeur, e cercherò più avanti di spiegare che cosa intendo. Balzac dedica alla sua pantera una descrizione minuziosa o piuttosto un'inscrizione, cioè qualcosa che inscrive nella trama del realismo romanzesco una simbolizzazione. «Era una femmina. La pelliccia del ventre e delle cosce splendeva di candore. Piccole macchie vellutate formavano graziosi braccialetti intorno alle zampe. Anche la coda muscolosa era bianca, ma terminava con anelli neri. La parte superiore del corpo, color oro matto, liscia e morbida, mostrava la picchiettatura caratteristica...». Ancora: «Era certo uno degli esemplari più belli della specie: alta tre piedi e lunga quattro, senza contare la coda: quest'arma potente, tonda come un randello, a sua volta non misurava meno di tre piedi. La testa, grande come quella di una leonessa, risaltava per una straordinaria espressione di finezza: vi dominava la crudeltà delle tigri, ma anche una vaga somiglianza con la fisionomia di una donna sofisticata...». Non è tanto un animale quanto una specie di condotto di potenze in moto continuo fra compressione e dilatazione, da fare pensare forse alla Lustpumpe, la pompa del piacere, cui accenna, alquanto enigmaticamente, una let15

tera di Freud e Fliess - alla fine, magari, un altro aspetto di ciò che si è definito la Cosa impenetrabile. Il linguaggio balzacchiano, quando arriva a toccarla è, quasi suo malgrado, un linguaggio di godimento. «Le afferrò le zampe e il muso, le torse le orecchie, la rovesciò sul dorso grattandole i fianchi caldi e serici...». Un ultimo gioco corpo a corpo, quando il soldato afferra la coda della pantera per il fiocco terminale «pour en compter les anneaux noirs et blancs, ornerrient gracieux qui brillait de loin au soleil comme des pierreries», vale da figurazione, nemmeno troppo schermata, di un atto sessuale. Anello anello... Une passion dans le désert ci impiglia in una variante inattesa di quella verità che fa il succo del già citato scritto freudiano Il disagio della civiltà, affermando che qualcosa nell'essenza stessa della funzione sessuale ne inibisce il soddisfacimento. Tale verità, risuggerita dalla storia di una passione fra un uomo e un animale, assume un tono curiosamente ironico, e rinvia una volta di più a quel carattere di tromperie, cui ho accennato. Il racconto sarà ingannatore in quanto scherma una impossibilità assoluta, dietro una inconciliabilità occasionale di tipo biologico o, se si vuole, dietro un'impossibilità da «storia naturale». Però non è la sola occasiùne in cui esso si fa gioco del lettore: il carattere estremo della passione che racconta si svela nella indecidibilità fra tragico e comico. Le descrizioni della pantera delle quali ho esibito qualche passaggio, somministrano un punto d'appoggio allo sviluppo del mio discorso. Mi riferisco agli «anelli bianchi e neri» che ornano la coda dell'animale (ma anche agli analoghi «jolis bracelets» intorno alle zampe); e alla sfolgorante bianchezza delle cosce e del ventre. 16

Si tratta di due insegne che rimandano a un paio di racconti di uno stesso autore - intendo Prosper Mérimée: La Vénus d'Ille e Lokis. L'associazione smetterà di essere arbitraria, quando spiegherò che si tratta di due storie d'amore particolari, due storie che inscenano appunto forme estreme dell'amore, con coppie caratterizzate da un partner anomalo: un orso mannaro, uomo-orso figlio di orso, e una statua di divinità pagana. L'anello, dovrei dire più giustamente gli anelli, che ornamenta la coda della pantera (organo, si è detto, sessuale per eccellenza, almeno nella raffigurazione balzacchiana), è l'omologo dell'anello infilato sventatamente dal signor de Peyrehorade al dito della statua - imprevisto sigillo di nozze e di tragedia. L'ho chiamato insegna, perché designa il luogo dove qualcosa di essenziale si annoda e contemporaneamente si rivela, fa parata - ovvero, come si vedrà, confessa il proprio sparire. La macchia bianca Ma il candore, la blancheur étincelante, il secondo reperto cui ho accennato, riveste un valore ben maggiore di quanto non implichi il semplice rinvio all'altro racconto di Merimée, Lokis. In Lokis, l'accenno reiterato alla «pelle di una bianchezza davvero straordinaria» di Mademoiselle Iulka, oltre al1'ovvia connotazione erotica, sopporta la funzione di contrapporre bianco (giovinezza, sventatezza, innocenza, femminilità) a rosso (crudeltà, aggressione, animalità, sangue) - binomio oppositivo di lettura abbastanza ovvia, se Mademoiselle Iulka è destinata ad essere la sposa-vittima del conte Szémioth, l'uomo-orso. Ma, tutto sommato, in questa prospettiva, può servirci abbastanza poco, per l'interpretazione di Une passion dans 17

le désert. Varrebbemeglio «il candore affascinante del corpo» della signora K. di cui fa le lodi Dora - se non altro per il campo di referenze che attira verso il discorso, (il contesto abbastanza prossimo a quel passaggio freudiano che tratta delle perversioni.) Porto l'attenzione sul carattere étincelant del biancore che riveste cosce e ventre dell'animale: qualcosa che finisce per togliere la vista per un eccesso di luminosità. Tale zona di candore abbagliante, viene ad assumere, nella struttura essenziale del racconto, la qualità di una forma - forma di luce e insieme di cecità da luce. Legata strettamente a una sorta di ontologia luminosa, o a una fotologia, secondo il termine di Rodolph Gasché, essa sequestra alla vista, cancella dal testo il genitale della pantera. È per così dire uno scotoma bianco, simmetrico, come si vedrà poi, a un'altra macchia di occultamento, che blocca simbolicamente il godimento. Quel candore, localizzato in modo opportuno, come l'abbaglio di un occhio percosso da una luce esorbitante, inibisce la visibilità del sesso femminile. È stato Lacan a parlare, in proposito, della dissimetria fra i due sessi, come si può controllare nel seminario sulle psicosi. «Non c'è, propriamente parlando, simbolizzazione del sesso femminile come tale». E osserva anche che il sesso femminile ha il carattere di un'assenza, di un vuoto, di un buco - di una macchia candida e scintillante, aggiungerei, sulla base dell'esperienza del racconto balzacchiano. Il sesso femminile non può dunque essere rappresentato. Tale irrappresentabilità significa - in Une passion dans le désert - un altro impossibile: quello di identificarsi non solo in un ruolo o persona (maschio/femmina, uomo/animale) ma nella sessualità stessa, premessa del suo esercizio. Qualche cosa è rimasta inibita nel campo del significante. Tutto ciò ruota intorno all'idea di simulacro (la pan18

tera) e alla funzione della luce (la blancheur). L'irrappresentabilità suppone uno specchio non rotto ma accecato da troppa luce. E il deserto appunto è il luogo privilegiato dove la luce organizza le sue funzioni e i suoi abbagli. Strisce, punti, colori Quella dissimmetria (significante) si riequilibra per così dire in una simmetria diegetica. Alla macchia bianca risponde la macchia nera, lo scotoma vero e proprio. Come si conclude, in tragedia, la passione fra il soldato e la pantera. Il lettore, praticamente, non lo sa: il racconto fornisce in materia pochissime informazioni, sommarie e frettolose. «Par un malentendu», per un malinteso... Chissà perché, la pantera si rivolta contro il soldato, mordendolo alla coscia; e quello le pianta il pugnale nel collo. È vero che ci troviamo di fronte a un procedimento narrativo abbastanza familiare a Balzac, quello che fa precipitare bruscamente la conclusione di una storia - si pensi soltanto all'assassinio di Sarrasine. Ma la rapidità schematica della chiusa di Une passion, che si esenta in tal modo da qualsiasi particolare e motivazione, mi sembra obbedisca soprattutto a uno scopo preciso: cancellare con una macchia nera ciò che non era dicibile, allo stesso modo che, si è rilevato, una macchia candida omologa sottrae alla vista l'irrappresentabile. A rigore, è nel rapporto fra questi due momenti, o meglio: fra queste due forme, che la storia d'amore, chiamiamola così, offerta da Balzac, dichiara il proprio carattere estremo, abnorme. Ma la lettura del racconto ci ha fatto passare attraverso una serie di segni particolari: anelli, strisce, braccialetti, picchiettature, striature cangianti, profili mutevoli, macchie, zone colorate eccetera - che non riguardano, si badi bene, soltanto il mantello della pantera ma il de19

serto stesso. Non è possibile farne conto di nulla. Sebbene non riesca ancora, al momento, a chiarirmene bene la connessione funzionale, sono tentato di rimandarmi a ciò che ha osservato Sergio Pinzi nel suo libro, Nevrosi di guerra in tempo di pace, e particolarmente agli ultimi capitoli, dove si tratta, vedi caso, di punti, strisce, macchie, ocelli... «Se nelle macchie e nei colori individuiamo il legame esistente fra l'uomo e l'animale...». Non posso che estrapolare (inurbanamente, vale a dire inscientificamente) l'enunciato di Pinzi, e lasciarlo sospeso, a lavorare, se può, dentro questo discorso che, dopotutto, ha a che fare con l'animale e con l'uomo, e con il godimento mancato. Scopro alla fine, con un po' di sorpresa, che la lettura ha fatto emergere in tale specie di amore, l'importanza dei marchi di superficie, a partire dalle due zone di annullamento che ho creduto di identificare. Questi dirò così tatuaggi, sono segni linguistici che portano a confrontarci con la questione del desiderio- umano e animale -; della identificazione sessuale; del simulacro, in quanto qui si leghi al sesso; ma anche con l'opposizione potenza/onnipotenza (come osservava un intelligente aforisma di Cesare Viviani, la prima qualifica l'animale, la seconda l'illusione, o il sogno, dell'uomo). Sono elementi dei quali possiamo forse affermare che non organizzano appena gli effetti di un racconto, ma la struttura di una situazione. Dal disotto Nel cartiglio d'ingresso avevo aggiunto qualcosa al titolo del racconto: «un amore meno che umano». Perché «meno che umano?» Non di certo per disgradare un rapporto che collega un uomo e una bestia, ma per significare qualcosa che vi avvertivo come essenziale: di 20

prodursi altrove rispetto a ciò che definiscono, e delimitano, di solito i nostri discorsi sulle passioni, con il corteggio di ciò che è perverso e di ciò che non lo è - e chi più ne ha più ne metta. Insomma, in una zona speculativamente un poco più rischiosa. Il «meno che» non è un segno si sottrazione, semmai un dato di prospettiva. Si potrà dedurne che Unepassion dans le désert è una storia da leggere «dal disotto». Sarà un modo di tale lettura anche ricordare l'iscrizione della statua della Venere d'Ille, vista la precedente chiamata di correo: «Cave amantem»: Bada a te se essa ti ama. Giuliano Gramigna 21

Il Tasso ovvero della passione Il tempo dei «Dialoghi» Devo prima di tutto dar conto del fatto che la mia lettura dei Dialoghi del Tasso, di cui ora esporrò alcuni passaggi, non è mai riuscita ad elidere, in tante prove, qualunque fosse la pagina ritrovata, il principio di scansione rappresentato dai titoli. La cifra alterna dei titoli platonici era un segno della tradizione, quasi una rubrica o un indice nel genere della trattatistica: ma la sua cadenza regolare nei volumi tassiani, dal primo dialogo, che forse è I Bagni overo de la pietà, del 1578, all'ultimo, Il Conte overo de ['imprese, del 1594, e le poche sospensioni del· Messaggiero, del Padre di famiglia, del Cavaliere amante, che fanno sentire la ripetizione come un metodo, hanno valore ed efficacia singolari, stando almeno a quel richiamo che - come dico - ricorre nella mia lettura. Gli anni della composizione dei Dialoghi sono specialmente i sette in cui il Tasso fu rinchiuso in Sant'Anna, e poi gli ultimi della sua vita, quando gli pareva che non ci fosse corte o casa ospitale di amici in cui stare al sicuro, ed era la stessa libertà ricuperata a costringerlo a fuggire, come se per difenderla non gli restasse, fra tanta gen22

te che frequentava, che una irrequieta sospettosa solitudine. Allora nel segno esiguo di quella scansione, portata dai titoli nella scrittura, noi sentiamo battere il tempo del carcere e quello consumato in un'altra angoscia, un tempo di fuga, assurdo e comprensibile, cominciato dopo la liberazione da Sant'Anna. È come se l'insistenza dello stilema che accoppia i soggetti, titolo dopo titolo, e l'accordo continuo con le celebri denominazioni platonichePedone e l'anima, Fedro e la bellezza, Timeo e la natura - imprimessero nella redazione dei dialoghi una formula d'esorcismo contro la solitudine, che intanto si rivela irreparabile, e sempre uguale e diversa. Questa forma del tempo, esatta e tenace, inerente alla scrittura, e individuata per prima - non casualmente, se, come assicurava Barthes, nell'ordine del discorso ciò che si nota è per definizione notevole-, potrebbe guidarci a riconoscere il motivo originale dei Dialoghi, e a ricomporre nella continuità e nell'inesauribile variazione di questo motivo anche i frammenti della vita dell'autore che ritornano a noi dal testo. Non parliamo di cose passate-ferme e spente nel rigore della documentazione-, ma di una «pluralità d'incanti»1 che si svolge al presente, nella lettura, in cui il tempo dell'autore affiora come un ritmo, un respiro. E i frammenti di quella vita possono venire a noi da qualunque punto del testo, non solo dalle pagine da tutti indicate (e stralciate) come le più suggestive: le pagine d'apertura del Padre di famiglia, intrise di «un temperato lume d'autunno»2 e dedicate al ricordo di una generosa patriarcale ospitalità, che una volta confortò il poeta nel suo vagabondare; la prima parte del Messaggiero, intrecciata di fantasie ai limiti del Barocco; le dolenti testimonianze della stanchezza inquieta e dello stato di prostrazione degli anni più tardi. Il motivo che dà senso e coerenza all'insieme dei dialoghi consente di scoprire il gesto di Torquato, un tratto della sua sensibilità, una sua angustia o una sua aspettativa, anche nei soggetti e nella 23

piega delle dotte conversazioni, anche in dettagli curiosi cercati nelle maschere, nelle epigrafi, nei giochi, nelle insegne. Il motivo, indiziato da quella scansione, si manifesta in una lucida atmosfera morale, che forse si può partecipare in questi termini: con gli oggetti, le figure, le prerogative della cultura il Tasso cerca di mascherare il carcere, la desolazione dei suoi ultimi anni; con la facoltà dell'invenzione letteraria e con gli artifici della retorica ricrea attorno a sé nobili forme di vita, e la consuetudine delle garbate discussioni, il rito degli scambi intellettuali da cui è escluso; nella finzione si circonda della grazia e del decoro che non ritrova nella realtà. Resta molto da dire sul motivo: intanto però non si può tacere che il suo soggetto è la scrittura, la quale, come abita e popola la solitudine del poeta, le dà forma compiuta e inattaccabile. L'analisi che si applica esclusivamente alla materia, e s'addentra nella sua civile varietà, nello spessore del commento erudito, nella profusione delle citazioni, alla ricerca di una linea speculativa o, quanto meno, di un principio di distinzione e di gradazione che investa l'ordine accidentale dei temi, finisce, nel migliore dei casi, con l'identificare l'unità dei Dialoghi in un elemento inerte, come può essere la coerenza di uno schema. Si distingue l'ordito puntuale quanto pacifico del «sistema gnoseologicoaristotelico», un «fondo immobile e normativo», che sostiene e omologa l'eclettismo filosofico e la libera colloquiale mescolanza dei contenuti, e ammette anche - delimitandolo con le proprie figure, e garanzie, di ordine e «allivellamento culturale» - «lo slancio platonico verso le idee trascendenti la natura»3 • È significativo che proprio nella definizione del platonismo del Tasso, accertata nei temi della fede religiosa e della bellezza, l'analisi denunci un limite, e converta e riduca tutti i valori rilevati e possibili (valori di senso) alla misura dei presupposti culturali, al dominio di «qualità» come «l'ordine, il 24

sistema, cioè l'aristotelismo», come «la costante classicistica e razionalistica»4 • Eppure è possibile sorprendere nel testo dei Dialoghi uno slancio platonico che si dispiega oltre questi limiti, e si congiunge intimamente, quasi s'immedesima con l'esperienza poetica, con qualche sua traccia sottesa alla scrittura che traveste il reale, vale a dire la segregazione e un profondo smarrimento. Può confermarci in questo modo di leggere, o strategia testuale, lo stesso poeta, se lo ascoltiamo attentamente quando nel dialogo Il Cataneo confida agli amici di essere portato spesso da «non usato piacere» ad avvolgersi «ne le cose scritte da Platone e quasi per le sue vestigia medesime», e che ciò gli accade «più per vaghezza de l'eloquenzia che per amor de la sapienzia». Piacere intellettuale, desiderio di eloquenza: di questi impulsi sono tramate le pagine di più lucida meditazione; ed è espressa da una ricerca di figure eloquenti, trascinanti - in sostanza da una ricerca di stile, non di originalità filosofica - anche «l'altezza eroica dell'intelletto e del concetto»5 a cui pervengono certi dialoghi. «Facendo imagini e sogni infiniti ... a guisa d'arciera che saetti tutto il giorno colpirò per aventura una volta il segno de' miei pensieri»6 • Dunque è lo stile la ragione e il valore di questa prosa: anche la singolare luce di certi oggetti, di certi contenuti, emana dal segno fortunato e preciso che li colpisce. Nel Messaggiero Torquato racconta questa sfida estrema dello stile, che lo trattiene in vita; la racconta come una risorsa e una consolazione della sua stessa «soverchia maninconia»: Comunque sia, coloro che non sono maninconici per infermità ma per natura, sono d'ingegno singolare, e io son per l'una e per l'altra cagione: laonde in parte vo consolando me stesso. (I, 267) 25

Portato dalla natura e dall'infermità a unamalinconia che «potrebbe assomigliarsi» all'idra (mostro con sette teste, che è inutile recidere), egli si consola e si salva in questa caccia dei pensieri, che lo tiene occupato «tutto il giorno»: io non sono così freddo e gelato ch'io sia costretto ad uccidermi, ma a guisa di cacciatore il quale abbia lanciato il dardo mi par di aver fatto preda prima ch'io abbia presa la fera con le mani, e mi par di antiveder di lontano le cose simili e le consequenti. (ibid.). Lo stile lo riscalda, anche con l'illusione di possedere i pensieri prima ancora di averli colpiti, col presentimento di trovare, «per aventura una volta», in ordine le cose. È giusto dire che «la virtù di questa prosa sta nell'interna tensione e nell'instabile equilibrio delle sue coordinate stilistiche»7 : ma bisogna sapere che lo stile, in questo caso, è un nodo vitale, che la sua tensione incide nella sostanza delle cose che si dicono, e identifica la stessa possibilità di dirle con la «speranza» che al poeta rimane di non perdersi nella sua soverchia malinconia, o «nuova pazzia», come lui stesso la chiama. Si può dunque riconoscere nei «momenti più alti» dello stile dei Dialoghi - in una «sommessa eloquenza tutta interiore», come in un «ritmo indimenticabile» o in una «sensualità lieve, aderente all'oggetto»8 -lo stesso lucido segreto che tiene il loro autore legato alla vita. Si può sciogliere l'analisi dei Dialoghi - come è stato fatto in acute dimostrazioni9 -dal rilievo del sistema dottrinale, per seguire il vario intreccio degli «atteggiamenti» e delle «ispirazioni» e annotare forme e qualità della prosa poetica10 : si può procedere in questo modo, in una lettura per così dire rapsodica, purché alla fine tutto - annotazioni e «sparsi frammenti» - si riporti a quel segno esistenziale, a quel progetto elaborato lucidamente - anche se non si può dire con quanta consapevolezza 26

- nel disagio e concretato nel solo elemento della scrittura, con la qualeTorquato si ritrova continuamente nella propria malinconia e riesce a scampare anche dal «gorgo della passiva contemplazione», a mantenersi in contatto col mondo, a sentirsi, anche nella segregazione, anche nel suo estremo isolamento morale, protagoni�ta della «più elegante attualità» e uomo di corte11 • Certo, se «gli pareva di non essere solo» era perché, in un «teatro mentale»12 , gremito di figure e costumi della società cortese, recitava - con studiata retorica, non di rado con un zelo capace di riscattare anche l'argomento più ozioso - un ruolo a mezzo «tra il poeta e il dialettico», da lui stesso ideato nell'Arte del dialogo. È bene non lasciar cadere l'accenno al «teatro mentale»: anche la linea interpretativa che qui sto proponendo insiste sul nesso tra gli scenari che si aprono nella prosa dei dialoghi e la solitudine dell'autore. Resta però problematico, per questa mia linea interpretativa, il passaggio in cui si spiega questo nesso come un'«inconscia terapia»13 • Può essere; ma bisogna tener conto delle difese che il Tasso costruisce nel «proprio male». Nell'assidua versatile recitazione, nella successione degli scenari - intesi come vedute, ma anche come tracce per la recitazione -, nei fitti intrecci degli argomenti, insomma in tutti gli incentivi e gli effetti della scrittura, il Tasso dissimula la propria solitudine e insieme se la rende necessaria. Allo stesso modo la scrittura è un sostegno dell'angoscia che continua ad alleviare e a sviare. Del resto questa angoscia e «soverchia maninconia» per il Tasso è anche il segno - gelosamente studiato, perfino verificato sui testi aristotelici - del suo «ingegno singolare», che si manifesta, e sfida il carcere e l'abbandono, nella prosa dei Dialoghi. Torquato, dunque, trova proprio nella malinconia che lo colpisce con «mortiferi morsi» una forma (o stile) di vita che tiene insieme il suo mondo e il suo corpo, e gli dà calore bastevole per evitare il suicidio - «non sono 27

così freddo e gelato...». Questa forma è la scrittura «assidua» dei Dialoghi, scrittura della detenzione, della solitudine. Perciò, nei tratti che stiamo per ripercorrere, noi vedremo questa scrittura investire l'esistenza stessa del suo autore, quello che è e quello che è stato e ancora si riconosce dal riverbero nel discorso dottrinale - in qualunque discorso, sulla bellezza, sull'amore - dell'esperienza poetica, di immagini e intrecci delle opere compiute. Concordanze Cerchiamo ora di mettere in luce le implicazioni della poesia in alcuni dialoghi amorosi. Non ce n'è traccia nell'informazione raccolta inmargine al testo, dove per ogni punto si rimanda diligentemente a un pensiero di Aristotele, o alle chiose e alle versioni dei suoi interpreti, o a un pensiero di Platone, come lui l'ha enunciato o come è consegnato dal commento ficiniano o come si tramanda dalle scuole. L'informazione a margine riporta anche, in precisi riscontri, molte espressioni poetiche, e prevede - sebbene non la esegua quasi mai - la citazione della stessa poesia del Tasso: ma ignora sistematicamente le ragioni di questa poesia implicate nel discorso in modo da aprire i contenuti a significati inattesi, da caricare l'enunciazione, e lo stesso formulario, di valenze inconsuete. Così non si vede, tra l'altro, che i termini e i modi tradizionali della discussione sono spesso attirati in alternative estreme - dove è in gioco, e si sublima, la verità delle passioni - e sono scambiati in accezioni singolari. Anche il testo dei dialoghi si svela pienamente - in forme consce e inconsce - nella lettera della poesia tassiana. Nei dialoghi della Molza (1585) e del Cataneo (1591) si discutono alcune delle Conclusioni amorose che il Tasso 28

lesse all'Accademia ferrarese nel gennaio del 1570, cioè in un momento propizio, che appartiene al periodo più felice e creativo della sua arte. Queste cinquanta Conclusioni, intrecciate alla redazione della Gerusalemme liberata, prossime all'Aminta, provvedono la traccia e la gradazione delle concordanze tra le forme della poesia e i due dialoghi, composti più tardi, in Sant'Anna e nei tormenti dell'«ostinata fortuna». Nel rimando dell'enunciato concettuale alle immagini - rimando suggerito o accolto dal testo stesso dei dialoghi - si precisa la struttura profonda della ricerca d'amore. La diciassettesima conclusione dice che l'amore è «desiderio d'unione per compiacimento di bellezza»; in La Molza overo de l'amore (II, 743-760), alle tre dame che l'hanno invitato a dire «qualche nuova diffinizione» il Tasso spiega che «tre passioni sono ne l'animo nostro per rispetto de l'obietto amabile o del piacevole: l'una è il compiacimento, il quale è amore; l'altra il desiderio che segue l'amore; e la terza il diletto nel quale s'acqueta». Ripropone così la sua conclusione amorosa, la quale potrebbe essere accostata a una definizione di Tommaso d'Aquino, se non la perfezionasse l'aggiunta che ogni amore tende a «una quiete nel piacevole» e, non potendola raggiungere, «diventa fiero per lunga passione e s'incrudelisce, per così dire, ne' tormenti». La voce passione declina tutto l'argomento, e insiste a spiegare non solo i tormenti d'amore ma anche la quiete nel piacevole, la quale «non è altro che desiderio di perpetuare ne la possessione, e non distrugge l'amore e non impedisce la contentezza de l'amante»: può essere questa voce a evocare la poesia. Certo è che la nascita d'amore è stata celebrata dalla favola d'Aminta, la quale più volte e in vari modi s'è diffusa nell'«esplorazione lirica»14 del momento in cui il piacere della bellezza sorprende i sensi, e il rapimento e il desiderio sono ancora sconosciuti e già indomabili. L'amore d'Aminta «nacque 29

a poco a poco», ma si manifestò in un momento come quello, in un desiderio d'unione che - come confidava lo stesso pastore all'amico Tirsi_:_ prese possesso di tutti i suoi sentimenti prima ancora che egli potesse riconoscerlo: ...mentre io fea rapina d'animali, fui, non so come, a me stesso rapito. A poco a poco nacque ne 'l mio petto, non so da qual radice, com'erba suol che per se stessa germini, un incognito affetto, che mi fea desiare d'esser sempre presente a la mia bella Silvia; e bevea da' suoi lumi un'estranea dolcezza che lasciava nel fine un non so che d'amaro: sospirava sovente, e non sapeva la cagion de' sospiri. Così fui prima amante ch'intendessi che cosa fosse amore. (Aminta, atto I, vv. 331-347) Quel velo d'amarezza era in ogni gioia, e mancò forse solo nella promessa di una quiete nel piacere, che Aminta infine ricevette coi baci; ma fuori della favola, lontano dal suo inganno malioso e trasparente, nessun amore conosce la perfezione della gaudiosa quiete, e i più appassionati - quello di Tancredi, quello di Erminia - sono destinati a perpetuarsi nei tormenti. Anche altre conclusioni riguardano la nascita d'amore. Gli occhi, si dice, sono «quelli che più godono e quelli di che più gode nell'amore» (XXVIII), e poi: «gli occhi esser principio e fine d'amore» (XXIX). Nel commento di queste conclusioni degli occhi si richiamano fonti platoniche e ficiniane e fonti poetiche della tradizione stilno30

vistica e del Petrarca: ma per intendere il godimento e il potere che attestano bisogna richiamare qui la poesia di Torquato, almeno alcuni degli innumerevoli versi dominati da questi motivi. Non c'è quasi luce spirituale in questo dominio (parliamo delle sue manifestazioni più spontanee), e comunque non è mai pura: il lume che pervade figure e situazioni è un elemento promiscuo dei sensi; lo splendore si diffonde nella varietà dei colori, dei loro toni, dei loro impasti: di rado resta indistinto. La vista assorbe e avviva tutti i sensi, come il «desiderio d'unione» tutti gli affetti: così Aminta, «rapito» da «un incognito affetto», beveva dai «lumi» della sua bella Silvia «un'estranea dolcezza». Per chiarire l'argomento tassiano della nascita d'amore evochiamo un altro episodio. Armida ha attirato Rinaldo su un'isoletta del fiume Orante: vuol vendicarsi di una sua sconfitta, e l'eroe addormentato dal canto di una «magica larva» è in suo dominio, nulla lo può destare da «quella queta imagine di morte». Esce d'aguato allor la falsa maga e gli va sopra, di vendetta vaga. Ma ecco il godimento degli occhi che suscita amore: pare un sortilegio ignoto anche alla maga, tramato non solo dal suo sguardo, ma anche dagli occhi nascosti del giovane eroe, che lei indovina ridenti: Ma quando in lui fissò lo sguardo e vide come placido in vista egli respira, e ne' begli occhi un dolce atto che ride, benché sian chiusi (or che fia s'ei li gira?), pria s'arresta sospesa, e gli s'asside poscia vicina, e placar sente ogn'ira mentre il risguarda; e 'n su la vaga fronte pende ornai sì che par Narciso al fonte. E quei ch'ivi sorgean vivi sudori accoglie lievemente in un suo velo, 31

e con un dolce ventillar gli ardori gli va temprando de l'estivo cielo. Così (chi 'l crederia?) sopiti ardori d'occhi nascosi distempràr quel gelo che s'indurava al cor più che diamante, e di nemica ella divenne amante. (Lib., canto XIV, ott. 66-67) Sono gli occhi chiusi a far percepire più vivamente il potere asserito dalla conclusione amorosa: «or che fia s'ei li gira?» ... «chi 'l crederia?»: quegli occhi nascosti sciolsero il gelo adamantino di un cuore nemico. La gioia degli occhi, «principio e fine d'amore», ferma Tancredi mentre sta per affrontare Argante in duello: là vicino, «sovra un'erta», è apparsa Clorinda, «l'alta guerriera». Bianche via più che neve in giogo alpino avea le sopraveste, e la visiera alta terrea dal volto. Tancredi «sol di mirar s'appaga» e dimentica il dovere delle armi e l'onore. È un breve indugio: quando l'eroe «invitto» scenderà a combattere accanitamente contro il «fero Argante», sembrerà mosso, più che dall'eccitazione della sfida e da desiderio di gloria, dal rimpianto per il suo sogno luminoso, di nuovo svanito; un rimpianto invincibile, come il senso di colpa che lo inasprisce: e vuol che 'l suo valor con chiara emenda copra il suo fallo e, come suol, risplenda. (Lib., VI, 26, 27, 36) È ancora la fascinazione degli sguardi a ordire il racconto, che Tirsi fa al coro, di come Aminta salvasse Sil32

via dalla violenza di un satiro (Aminta, atto III, vv. 36-120). La voce di Tirsi - narratore testimone- indugia e s'avvolge attorno al bel corpo di Silvia, allo stesso modo, si direbbe, dei giunchi e del cinto che legano all'albero la ninfa, e dei capelli che la stringono «in mille nodi». Qui si concentra una capacità di plastiche figurazioni, avvivata ora dalla trepidazione dei sensi di Aminta, ora dallo sdegno e la vergogna di Silvia, che prima si contorce con pena contro il «duro tronco» e cerca di nascondere come può il «delicato seno», di difenderlo dai «cupidi occhi» del giovane, e poi, come si sente libere le mani, si fa imperiosa - «Pastor, non mi toccar»-, e infine, «senza dire '-A dio-», fugge «com'una cerva», pur essendo sicura del «rispetto d'Aminta». Domina sui modi narrativi una nitida vibrante impressione visiva, per cui sembra quasi di avvertire la presenza delle figure umane e delle cose che Tirsi va ricordando: Ecco miriamo a un arbore legata la giovinetta ignuda come nacque A fronte a fronte un satiro villan noi le vedemmo egli [Aminta] rivolse i cupidi occhi in quelle membra belle, che, come suole tremolare il latte ne' giunchi, sì parean morbide e bianche; e tutto 'l vidi sfavillar ne 'l viso. La qualità lirica di tutta la pagina si accentua in quest'ultimo particolare, e, per così dire, si svela nel segno soggettivo del narratore, che incrocia lo sguardo con quello del suo eroe e ne rispecchia e condivide il piacere. E, una volta svelato, il segno soggettivo-lirico - della parte33

cipazione, dell'immedesimazione nello stesso piacere, si fa prepotente, intrattenibile: lo che m'era nascoso e vedea tutto ed udia tutto, allor fui per gridare... Così, tutta la vicenda si svolge in un solo quadro, scandito da misure interne in tre momenti successivi e compresenti (come avviene appunto nelle narrazioni pittoriche): la ninfa legata all'albero - e piegata quanto può su se stessa, col viso basso, in un fremito di vergogna e di sdegno- e di scorcio il satiromesso in fuga; Aminta che tende verso di lei le mani tremanti di desiderio e di timore; lei già lontana che s'invola allo sguardo di Tirsi - che infatti su questa immagine ferma il suo racconto -, non a quello dell'innamorato, che s'è messo in disparte «riverente» e non osa neppure alzare gli occhi «per mirarla» un'ultima volta. Nella conclusione diciannovesima si sostiene che «la bellezza dell'animo per sé sola» non desta amore ed è vana «l'opinione di coloro che credono potersi amare l'animo o la virtù solamente». Le poche pagine di poesia che abbiamo rammentato bastano a chiarire la sentenza. Ma nel dialogo Il Cataneo overo de le conclusioni amorose (II, 795-838) si esamina la natura dell'unione d'amore, e si afferma che l'unione dei corpi o «amor sensuale» suole «divider l'animo, anzi lacerarlo». Il suo potere è descritto in questo modo: 34 mille passioni a guisa d'onde maritime sono sollevate: l'imaginazione è perturbata, i fantasmi a guisa di larve notturne si appresentano con sembianza orribile e spaventosa, i tesori de la memoria sono depredati e l'imagini guaste e gittate per terra come le statue e i simolacri d'una città tumultuosa; la reina medesima e im- peratrice de

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