Il piccolo Hans - anno XVII - n. 69 - primavera 1991

sa, ed è come se accettasse la tenerezza, che «sfavilla» nelle lacrime dell'essere amato, per riconciliarsi con la propria passione; è a lei, nella persona di Rinaldo, che si dichiara fedele: «Ecco l'ancilla tua; d'essa a tuo senno dispon, - gli disse - e le fia legge il cenno». (XX, 136) Parole troppo solenni, troppo rituali: non sono per un innamorato. «Nessun amante aver compassione de' mali dell'amata, e la compassione dell'amata verso l'amante non esser segno di reciproco amore, ma più tosto del contrario» (conclusione XLIII). Quando credeva nell'amore di Rinaldo, Armida aveva in orrore la pietà. Al momento dell'abbandono rinunciava a tutti i suoi incanti: al limite del labirinto, dichiarava, per la prima volta, al suo «idolo crudele» tutto il suo amore, lo denudava, si può dire, nelle lacrime, nella furia delle proteste - «forsennata gridava» -, anche nel ricorrere disperata alle sue «arti» di seduttrice, nel provar «se vaga/ e supplice beltà sia miglior maga». Ma neppure allora chiese pietà: provocò la crudeltà dell'amato, come se tentasse di ritrovare per questa via la sua passione, e in un'ironia stravolta, confusa, fu crudele con se stessa: «T'ingannai, t'allettai nel nostro amore; empia lusinga certo, iniquo inganno, lasciarsi còrre il virginal suo fiore, far de le sue bellezze altrui tiranno, quelle ch'a mille antichi in premio sono negate, offrire a novo amante in dono!». (XVI, 46) 41

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