Il piccolo Hans - anno XVII - n. 69 - primavera 1991

(«Moy è cette heure et moy tantost sommes bien deux», III, 9, 941c) che variano secondo le contingenze e si modificano seguendo le pieghe del discorso. Sono, questi, i frammenti sparsi negli Essais di una sorta di (senza la lettera e il metodo) «teoria del soggetto». E, in ultima analisi, è proprio tale sfiducia assoluta nell'identità personale come qualcosa di fisso che giustifica e rende possibile l'anomalia della scrittura degli Essais: una scrittura della soggettività che non si compone in nessuna delle forme conosciute (autobiografia, diario, autoritratto, le quali appunto presuppongono tutte, in un modo o nell'altro, la fiducia nell'unità identitaria dell'essere). Non è possibile, per Montaigne, «ricondurre l'individuo ad una sola realtà e immobilizzarlo nei limiti di una determinata esistenza. Ognuno è se stesso ad ogni istante, cioè è parecchie volte se stesso. La sua identità in assiduo movimento» (la chiarificazione è di Salvatore Battaglia, e mi pare di rara limpidezza)9. «Je n'ay rien à dire de moy entierement, simplement, et solidement, sans confusion et sans meslange, ny en un mot», significa che je ha qualcosa da dire, in ogni momento, della sua «volubilité et discordance». Il soggetto esiste solo come essere di linguaggio, nei diversi je del discorso. E il linguaggio veicola frammenti di fantasmi che, all'insaputa del soggetto, determinano l'orientamento del suo discorso... È sorprendente che ancor oggi la vulgata critica (intendo l'opinione che va per la maggiore, perfino sotto la penna di non volgari esegeti) rimane pigramente fedele al pregiudizio dell'«impersonalità» dei primi capitoli degli Essais e dunque della progressiva «personalizzazione» dell'opera attraverso le fasi succedentisi. Montaigne avrebbe insomma cominciato collezionando aneddoti, accumulando exempla: i testi presumibilmente più antichi, che si usano definire compilativi, centonistici - relegati come tali nel fourre-tout dei florilegi (di apoftegmi, di fatti 120

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