Il piccolo Hans - anno XVII - n. 69 - primavera 1991

mente, «armonia», un'armonia delle parole che investe - ancora una volta secondo il dettato ciceroniano - i livelli stilistici del loro impiego; ed è definibile, valutabile, unicamente nell'ambito della «materia» cui fanno riferimento: Da scegliere dunque sono le voci, se di materia grande si ragiona, gravi, alte, sonanti, apparenti, luminose; se di bassa e volgare, lievi, piane, dimesse, popolari, chete; se di mezzana tra queste due, medesimamente con voci mezzane e temperate... (II, IV). Questa regola è così cogente che, ove non possa al tutto rispettarsi, se «quello che noi di scrivere ci proponiamo, esprimere non si possa con acconcie voci... da tacere è quel tanto che sporre non si può acconciamente» (II, V). Errò quindi Dante nel rappresentare gli scabbiosi, nei suoi paragoni, e nell'impiego di voci «rozze e disonorate» (Il, V); un argomento ripreso più avanti (II, XX), con il rimprovero di non aver saputo evitare, in poesia, di avvalersi di voci «ora le non usate e rozze, ora le immonde e brutte, ora le durissime...» (II, XX). Quali siano i termini incriminati nei quattro versi del canto XIX dell'Inferno che Pietro Bembo cita, non ci è detto: probabilmente «stregghia», «scardova» e forse la stessa «scabbia»; certamente il «sognorso» che chiude il verso settantasette, sul quale il dialogo ritornerà più avanti (II, XXI), insieme con un esempio («avacciare», di Dante e dello stesso Boccaccio, «avanzare», invece, in Petrarca che «in luogo d'Avacciare, che ad uopo gli veniva, disse Avanzare, fuggendo la bassezza del vocabolo, come io stimo, e in questo modo inalzandolo». Questa contrapposizione Dante/Petrarca non era nuova nel dibattito letterario quattro-cinquecentesco. Nello specifico offre al Bembo (II, VI) l'occasione di compiere, per bocca di Giuliano de' Medici, una sottilissima analisi 106

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