Il piccolo Hans - anno XVII - n. 69 - primavera 1991

Così argomenta il Castiglione: Non so adunque come sia bene, in loco d'arricchir questa lingua e darle spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e il Boccaccio; e che nella lingua non si debba ancor credere al Policiano, a Lorenzo de' Medici, a Francesco Diaceto (I, XXXVII)9. Viene toccato qui, come è noto, un punto cruciale del dibattito cinquecentesco intorno alla «questione della lingua». Non è il caso di soffermarvisi, né tantomeno di soppesare le (maggiori) ragioni o i (minori) torti del Bembo: ciò che a lui appare soprattutto importasse, ciò cui diede opera nelle Prose, era costituire un solido fondamento, non meno storico che concettuale, all'uso della lingua che da fiorentina potesse e dovesse divenire «italica». Da ciò il suo privilegiamento di quegli autori del Trecento che un tale fondamento potessero offrire, e sulla cui lingua potesse articolarsi sia un sistema lessicale e fonetico, sia - e soprattutto - come si è detto, grammaticale e sintattico: la «elezione» e la «disposizione» delle «voci» (parole) su cui, secondo una impostazione esplicitamente tratta dalla retorica latina, e in particolare da Cicerone e da Quintiliano10 , Carlo dispiegherà, nel secondo e terzo libro delle Prose, la sua analisi del «volgare»: Primieramente è da vedere, con quali voci si possa più acconciamente scrivere quelle che a scrivere prendiamo; e appresso fa di mestiere considerare, con quale ordine di loro e componimento e armonia, quelle medesime voci meglio rispondano che in altra maniera (Il, IV). Il termine forte che si evince dal passo citato è, certa105

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