Il piccolo Hans - anno XVII - n. 68 - inverno 1990-1991

dialetto significhi parlare per il tramite di un coro»30 ). La sua insofferenza per il so'ggettivismo lirico oggi dilagante nella poesia nasce proprio dal bisogno di rispettare le caratteristiche del dialetto. «In troppa poesia dialettale si avverte una non-necessità, una non-imperiosità del linguaggio rispetto al mondo di cui ;i parla»31• Al punto che nei testi più recenti Giannoni sembra addirittura rinunciare alla sçansione metrica, approdando alla prosa vera e propria. E, se si volesse risalire al primo Novecento, ci si troverebbe di fronte a un caso come quello di Tessa, che addirittura dimostra come si possa introdurre nel verso dialettale, iuxta propria principia, senza che ciò venga avvertito come una forzatura, una serie di modernissime inquietudini sperimentali. Il rischio cui appaiono esposte esperienze come quelle di Nadiani, ma anche di altri autori come Carlo Regis, Ernesto Céilzavara, Ignazio Delogu, Cesare Ruffato, che sciolgano ogni legame tra il dialetto e i suoi referenti, mi sembra in definitiva quello di una scarsa necessità del dialetto stesso. Così facendo, il pericolo di cadere in una sorta di neo-ermetismo, di alessandrinismo prezioso è tutt'altro che teorico. Inaspettatamente proprio in queste esperienze - mi riferisco soprattutto a Nadiani - torna addirittura ad affacciarsi l'oralità. Il poeta faentino propone infatti vere e proprie audizioni pubbliche dei suoi testi, con l'accompagnamento di strumenti musicali, che ne sottolineano le tensioni e le fratture. Ma è evidente che, così facendo, trasformando la recitazione in una performance, il testo viene trasferito in un universo intellettualistico come quello dell'avanguardia, con il quale non mi sembra il dialetto abbia molto in comune. Non si tratta di rilanciare una dialettalità patetica e consolatoria, ma di sfruttare al meglio, nel modo più congeniale, le risorse di un codice, la cui scelta, di fronte a un 54

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