Il piccolo Hans - anno XVII - n. 68 - inverno 1990-1991

In realtà non credo si tratti di una questione di contenuti, ma di modi. Nessuno si sogna di negare la condizione lacerata dell'uomo novecentesco, né lo smantellamento dei dialetti e neppure la possibilità, anzi la necessità, che il poeta che se ne serve immetta nella sua poesia tutta la propria cultura, come da sempre hanno fatto i grandi poeti, da Ruzante a Porta, da Goldoni a Belli. Ciò su cui si vorrebbe eccepire sono le modalità con cui tale immissione avviene. Si veda all'opposto il caso di un altro romagnolo, Raffaello Baldini27 • È difficile immaginare un autore che abbia più insistentemente rappresentato la divisione dell'uomo contemporaneo, perduto nella nevrosi e tormentato da un'oscura colpa. Eppure l'autore di Furistìr discende tutto ciò in un orizzonte rigorosamente municipale, dove la parola dialettale risulta perfettamente ambientata. La sua poesia ottiene gli effetti più felici attivando una feconda tensione tra materiali tradizionali e problematiche modernissime, investendo il microcosmo più rassicurante con la più devastante negatività contemporanea, conducendo l'estraneità entro gli orizzonti dell'identità e della comunità. Non stupisce che proprio il poeta santarcangiolese, richiamandosi alla celebre distinzione di Pancrazi, abbia potuto sostenere: Oggi forse è giusto che i versi "in dialetto" siano anche "dialettali". Svuotato dall'interno il dialetto rischia infatti di ridursi a una scorza, a una buccia. E invece se ha ancora un po' di vita è perché ci sono dentro cose, gente paesaggi. Un dialetto dialettale non è quella tautologia che può sembrare.28 Altrettanto significativo il caso del genovese Roberto Giannoni29 , nel quale si assiste a una radicale rinuncia all'io lirico, a favore di una parola che vorrebbe essere quella del coro («Penso che in qualche maniera scrivere in 53

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