la peggiore della cultura lombarda a partire dal Seicento. Ma è certo che l'immagine del dialetto che la storia dell'Italia postunitaria consegna al poeta è quella, non solo di una lingua dei vinti, ma anche di una lingua sconfitta. Né si può ignorare che una prima grande sconfitta storica i dialetti l'avessero subita fino dal Cinquecento con la codificazione bembesca, che contribuì a connotarli come lingue del comico e del carnevalesco, dell'interiezione e dell'invettiva, dell'istinto e della corporalità. Questo retaggio, con un'ambivalenza tipica della sua storia, continuerà a pesare sul dialetto e insieme a garantirne l'efficacia espressiva. Se l'italiano spaziava nelle zone più alte del lessico, il dialetto offriva l'impareggiabile forza dei suoi colori e dei suoi sapori nelle zone basse. Non è un caso che l'effetto, spesso deliberatamente ricercato, di ogni spostamento del dialetto verso le zone alte sia stata ogni volta la parodia. Ecco perché, accostandosi agli esercizi di taluni neodialettali poco sensibili alle peculiarità storiche del loro mezzo, può accadere di avvertire una sensazione di scarsa congruenza. Trascinato in ambienti che gli risultano estranei, il dialetto sembra abbandonarli. In un frammento di poetica apparso su «Lengua» uno dei più interessanti romagnoli dell'ultima generazione, Giovanni Nadiani24, dissentendo dalle proposte interpretative da me avanzate nell'introduzione a Poeti dialettali del Novecento, notava che il dialetto è ormai ridotto a uno «scheletro», svuotato dei suoi referenti, un mero reperto investito dalla disarmonia del mondo contemporaneo25 . Senonché il giovane poeta, nella preoccupazione di prendere le distanze da tanta sciagurata nostalgia vernacolare, quanto mai virulenta soprattutto nella sua regione, finisce per andare oltre il segno, approdando allo sperimentalismo. In un'altra nota parlerà di «ossuto, scarnificato, stralunato (sofferto?) peregrinare dello smarrito monema-significante-relitto»26. 52
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