Il piccolo Hans - anno XVII - n. 68 - inverno 1990-1991

48 dei Petròn: il cui casolare era là, illuminato dal suo sole, un poco più misterioso, dietro un cancelletto dal legno più tarlato e venerando di quello del poggiolo: e si intravvedevano, sempre in cuore a quel sole altrui, i mucchi di letame, la vasca, la bella erbaccia che circonda gli orti: e lontano, in fondo, se si tira il collo, come in un quadro del Bellini, ancora intatte e azzurre le Prealpi. Di cosa si parlava, prima della guerra, prima cioè che succedesse tutto, e la vita si presentasse per quello che è? Non lo so. Erano discorsi sul più e sul meno, certo, di pura e innocente affabulazione. La gente, prima di essere quello che realmente è, era ugualmente, a dispetto di tutto, come nei sogni. Comunque è certo che io, su quel poggiolo, o stavo disegnando (con dell'inchiostro verde, o col tubetto dell'ocra dei colori a olio su del cellophane), oppure scrivendo versi. Quando risuonò la parola ROSADA.. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada, i Socolari, a parlare. Un ragazzo alto, d'ossa grosse... Proprio un contadino di quelle parti... Ma gentile e timido come lo sono certi figli di famiglie ricche, pieno di delicatezza. Poiché i contadini, si sa, lo dice Lenin, sono dei piccoli-borghesi. Tuttavia Livio parlava certo di cose semplici e innocenti. La parola «rosada» pronunciata in quella mattina di sole, non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito: questo fa parte del ricordo allucinatorio. E scrissi subito dei versi,.in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola ROSADA. 18

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