Il piccolo Hans - anno XVII - n. 67 - autunno 1990

Il filosofo era passato per due guerre. E l'ultima, preceduta da vent'anni di barbarie fascista, si era abbattuta provocando orrori inauditi che avevano fatto continuamente balenare l'estremo rischio di una «fine» della civiltà. Croce aveva visto coi suoi occhi gente conosciuta morire agli angoli delle strade. Aveva dovuto convivere per tanto tempo col timore ossessionante che i suoi libri, in cui si compendiava il senso di un'intera vita di studio, potessero essere distrutti da un minuto all'altro, come quelli del suo amico Casati. L'esperienza della guerra gli aveva provocato una «atroce tristezza del tramonto contornata da stragi e distruzioni di tutto ciò che tenevamo caro al mondo»5 • Ma egli non si sarebbe facilmente consegnato ai pessimismi o alle malinconie. Avrebbe piuttosto cercato di capire e trarre lezione da tutto ciò che di irragionevole e imprevedibile era avvenuto. Nell'esperienza della guerra, dell'ultima terribile guerra, forse si cela una chiave per comprendere meglio il complesso delle motivazioni pratiche (e storiche) che interferirono sugli inquieti ripensamenti dell'ultimo Croce. Proprio la guerra, genericamente definita in altri tempi «come l'amore e lo sdegno» (1914)6 , rimossa talvolta come «se non ci fosse» (1915)7, considerata - con una sorta di olimpica distanza - come un morbo inevitabile e passeggero, la guerra, adesso, gli appariva sotto un'altra e ancor più livida luce. E quell'atteggiamento di sicurezza che Croce aveva manifestato nei suoi interventi tra il 1914 e il 1918, adesso cambiava segno. Nell'Awertenza del '49 alla terza edizione del volume che raccoglie le sue «pagine» sulla prima guerra mondiale8, lo stesso Croce - pur senza estranearsi dalle precedenti posizioni - indicava la differenza del suo atteggiamento: 99

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