Il piccolo Hans - anno XVII - n. 67 - autunno 1990

zate appena - una diafana figurina/ sul semplice piatto d'argilla, I come una pelle appiattita di scoiattolo. Con Tristia, si spegne la musica cantata delle prime poesie: nel contrasto fra «tenerezza e pesantezza» la parola è dimenticata, nascosta fra ombre incapaci di riprodurre il ricamo delle cose - La conchiglia (1911) - o l'ardita sfida di una cattedrale - Notre Dame (1912). È il passaggio sulla disincarnazione della parola che annuncia la crisi radicale: così, in «Ho dimenticato la parola che volevo dire» (1920) Mandel'stam afferma programmaticamente - «l'idea tornerà senza carne nel palazzo delle ombre». È il momento dell'«idea senza carne» che segna la massima lontananza dal Mandel'stam che stiamo individuando come capostipite della linea «metafisica» novecentesca. Ma la «virata di bordo» è immediatamente successiva, contemporanea allo scritto sull'inganno simbolista, che è del 1922. Bastano tre anni perché la prospettiva sia completamente ribaltata, nella raccolta Poesie 1921-1925. Dopo «Concerto alla stazione» - un addio alla musica del passato- «Mi lavavo di notte nel cortile» apre la nuova grande stagione poetica. Si prendano come manifesti: «Trovando un ferro di cavallo» e «Ode di ardesia», due lunghi testi straordinari, del 1923. La parola qui ritrova una forza e una concretezza il cui unico modello è il corpo. Sviluppando temi già presenti in Pietra (1912-1915), la nuova stagione poetica ricostruisce organicamente sulla pagina un linguaggio «siliceo», e insieme leggero come l'aria. Il senso dello sdoppiamento acuisce la forza della parola: - quello che dico io adesso non sono io a dirlo/ ma si strappa alla terra come grani di grano pietrificato. Non è il poeta a parlare, con la sua sensibilità, ma un fondo resistente della lingua. «Ho due facce, e l'anima doppia». «Uno strato buio, uno di luce». Rispetto a Tristia, la poesia di Mandel'stam è mutata profondamente: una libertà inaspettata, un modo nuovo 68

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