Il piccolo Hans - anno XVII - n. 67 - autunno 1990

Dal suo interno, testimonia dell'esperienza antichissima del puer, senza potere, sapere e garanzie, mentre dal suo esterno vede i discorsi di poetica. Dall'interno e dall'esterno, inizia così, in Zanzotto, un pensiero straordinario su quel disastro d'avere a che fare col linguaggio che segna la poesia, sontuoso arabesco nell'aria e insieme luogo dove le parole sono più pesanti delle pietre. Perché: «la poesia è mero significante puro. La poesia è la parola più destituita di significato che poi si carica talmente da diventare perturbante». La poesia nasce, dunque, da un «graffio fatto nell'aria», dall'allucinazione potentissima dell'infante che cerca nelle parole una semplice dichiarazione di presenza. Ma quelle stesse parole, se si muovono nella direzione della lingua, incominciano ad andare verso la poesia, verso l'allucinazione della lingua universale. Fra le due posizioni - dall'interno e dall'esterno; dall'infante e dalle grandi tradizioni linguistico-poetiche - Zanzotto «inventa» un discorso nuovo, che tiene aperta la possibilità di parlare senza tradimento, sgusciando tra l'obbligo del silenzio su ciò che non può essere detto e il rischio delle teorie. Parla dei «terreni di deiezione» della poesia, da cui si sentono «le frequenze, i rumori interni» della lingua di tutti, accarezzata dal «meschino infante che cerca un ponte verso gli altri, che entra nelle zone dove l'io si distingue dal mon_do». Ne parla con la «consapevolezza che a tre passi di distanza non se ne sente più la frequenza, il rumore interno». Eppure la poesia è fatta di «distanza»: come scrive Mandel'stam «scambia segnali con Marte». O, come scrive Zanzotto: «va. da casa ai 273 sottozero del cosmo». Il rischio delle teorie è tanto più forte - tanto più esterno alla poesia - in quanto la poesia contiene già in se stessa il proprio discorso: «la poesia parla sempre di sé». Zanzotto porta l'esempio di due poetiche nascoste e portate ar «piccolo». «Tanto più Dante va verso il centro del 64

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