Il piccolo Hans - anno XVII - n. 67 - autunno 1990

secondo passaggio, che riguarda una lingua nuova. Se la poesia «pura» si conserva autoriflessivamente all'interno del proprio idioletto, la poesia «metafisica», proprio perché rompe verso l'esterno, immette di forza un corpo estraneo nella sua lingua. È l'italiano di Dante per Mandel'stam, la lingua celtica antica per Hopkins, il dialetto o l'inglese nel caso di Montale. È, in Pasolini, in Zanzotto, l'italiano parlato - l'amato odiato italiano unitario, che, da pochi anni, esiste in qualche modo come lingua nazionale - che scardina una tradizione di lingua lirico-letteraria. Questa capacità di inglobare corpi e lingue estranei, e di costruirsi intorno a quelli, è decisivo per la poesia «metafisica», che funziona come un «meccanismo in grado di divorare ogni tipo di esperienza». I poeti del '600, i successori dei drammaturghi del '500, possedevano sul piano della sensibilità un meccanismo in grado di divorare ogni tipo di esperienza. Non diversamente dai loro predecessori sono di volta in volta semplici, artificiosi, difficili, immaginifici; né più né meno che Dante, Guido Cavalcanti, Guinizelli e Cino15 • Lo evidenzia Eliot, nel suo saggio sui Poeti metafisici, del 1921, dove parla dell'«oscurità» metafisica: poiché non si può «guardare nel cuore», «bisogna scandagliare la corteccia cerebrale, il sistema nervoso, l'apparato digerente». Oggi, in Italia, è la poesia «metafisica», con la sua lingua da scandaglio, che ci appare capace di restituire alla poesia la sua «navigazione in mare aperto». Qui la lingua si rivela nella sua nudità - lo vedremo in un'altra occasione - e attinge, come hanno fat- · to Hopkins, Mandel'stam, Thomas e gli altri, al fondo della tradizione nazionale. Pensiamo naturalmente agli esempi di Pasolini e Zanzotto, ma anche di Fortini, di Porta. Contro quest'operazione di «restauro» 59

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