Il piccolo Hans - anno XVII - n. 67 - autunno 1990

senta.vano alla mente i raffronti con quelli che «in tempo di guerra» erano stati gli stati d'animo dei soldati e dei civili nel nostro Paese, in Italia, e con quanto la cultura aveva fatto, allora, emergere. Neanche da pensare, mi sono detto, a quest'ultimo proposito, ad alcunché di simile, nello scalcinato Esercito italiano alle americane Edizioni dei Servizi Armati; e quanto ai «tascabili», bisognerà aspettare la fine della guerra, con la B.U.R. di Rizzoli e i «Canguri» dell'editoria di sinistra. Non eravamo certo, né lo siamo a distanza di cinquant'anni, un popolo di lettori. Più intricante, invece, il quesito sul perché, tra i soldati italiani, non sia emersa la tendenza a un linguaggio «fresco», gergale, forte, più o meno caratterizzato dall'osceno. Varie le ipotesi èhe si possono assumere. Vi è intanto da osservare, più in generale, che l'atteggiamento di fondo, dei soldati come dei civili, nei confronti della guerra fu, da noi, piuttosto di rassegnazione che di protesta: se la guerra non veniva vissuta, alla Marinetti, come «sola igiene del mondo», e tanto meno come esaltante coronamento delle fortune imperiali del fascismo, essa appariva quasi come una catastrofe naturale, un terremoto, una inondazione, di fronte alla quale non restava che rassegnarsi, cercando di sfuggirne al massimo, individualmente, le conseguenze. Se le canzoni fasciste proclamavano «Vincere, vincere, vinceremo/ e vinceremo in cielo, in terra, in mare!», o «Colonnello, non voglio pane/ voglio piombo per il mio moschetto!», i rari cori degli uomini in uniforme ripetevano, semmai, i mesti motivi della Grande Guerra o le tradizionali melodie delle vallate alpine. Niente «Monte Grappa tu sei la mia patria», ma piuttosto «Soreghina, la figlia del sole», o «Noi della Val Camonica,/ noi suonerem l'armonica». Un'altra componente potrebbe essere ricercata nella sostanziale differenza linguistica all'interno dell'Eserci186

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