Il piccolo Hans - anno XVII - n. 67 - autunno 1990

La pur eccellente traduzione italiana di Giovanni Raboni suona: «A lungo, mi sono coricato di buonora». Nulla da eccepire, dal punto di vista della resa, immediata, del significato, dell'azione compiuta dal narratore, quella appunto, di essersi coricato, a lungo, «di buonora». Ma è questo il «senso» dell'espressione, ciò che in realtà l'autore vuole trasmetterci, e proprio in quanto «scrittore»? Vediamo: «Longtemps, je me suis couché de bonne heure». Un periodo di sole otto parole; ma quanto «dense»! Intanto, due espressioni avverbiali che richiamano, in apertura e chiusura di frase, al tempo, tema primario della ricerca proustiana. E, più sottilmente, la prima parola del lungo (long) libro include il termine temps, lo stesso con cui esso, dopo le sue migliaia di pagine, si conclude, uroboro, serpente che si morde la coda, come una delle tante raffigurazioni simboliche, appunto, del tempo, l'«eterno ritorno». E subito dopo il gioco, forte in francese, tra je, soggetto, e me, autoriflessivo. Quindi couché, che non sta a significare soltanto, banalmente, «coricato», ma si carica di una ineludibile connotazione sessuale («andare a letto con qualcuno», «fare l'amore»); un verbo che anticipa ciò che Proust rileva nella pagina immediatamente successiva: «Quelquefois, comme Eve naquit d'une còte d'Adam, une femme naissait pendant mon sommeil d'une fausse position de ma cuisse. Formé du plaisir que j'étais sur le point de gouter...», con quel che segue, a rappresentare il piacere erotico. Infine bonne heure, che Rabòni non può che tradurre, correttamente, con «di buonora». Ma bonne heure, in francese, è omofono di bonheur, «felicità», un termine che troviamo subito, anch'esso, nella pagina successiva, «Quel bonheur, c'est dejà le matin!», e che anticipa quello del bacio materno, assaporato prima di addormentarsi «ce bonsoir que j'amais tant», ma che, per ossimoro, per 174

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