Il piccolo Hans - anno XVII - n. 66 - estate 1990

simbolico in cui, più e più volte, c'è modo di prendere chiaramente coscienza che i loro legami interiori sono una realtà». Antoine Compagnon, interrogandosi sulla corrida, riferisce che, ancora nel XVI secolo, fino a che un editto di Pio V non vi mise fine, i tori combattevano in parecchie riprese, il che provocava numerose morti di uomini. La Chiesa accettò di chiudere gli occhi alla precisa condizione che il toro apparisse nell'arena una sola volta e vi morisse. Così, a partire dal XVII secolo «si tratta di riabilitare la morte del toro istituendola, di trasformare la morte in messa a morte, messa-in-scena della morte impartita dall'uccisore». 1n questa ottica «il tercio de muerte non può durare più di un quarto d'ora oltre il quale il toro avrebbe compreso come stanno in realtà le cose e caricherebbe l'uomo invece del richiamo» (1978, 891-2). Per quanto riguarda il distacco necessario perché abbia luogo il rito, perché circoli il simbolico, Compagnon (1978, 902) ricorda la storia di un toro di nome Civilon: «un addetto all'allevamento l'aveva addomesticato fino al punto di chiamarlo per nome e accarezzarlo sotto il collo. Civilon combattè in una corrida nel giugno del 1936; il suo domatore scese nell'arena e lo chiamò: Civilon, nonostante le ferite che gli erano state inferte, lo riconobbe e andò a strusciarsi contro di lui. Il pubblico allora chiese la grazia per il toro che uscì vivo dall'arena». Come Geertz a proposito del combattimento dei galli, Compagnon rileva l'aspetto fallico della corrida: «Che cos'è questa erotica senza femmina - a parte la bella a cui l'uomo dedica la bestia, colei che nella prima fila delle barreras spiega a ventaglio il suo grande scialle intrecciato di nero? Che pletora fallica! Il sesso del toro, le sue corna, il sesso del matador insaccato nella divisa d'oro e lui stesso eretto sull'arena, con in più la picca, le banderillas, la spada. Che cosa rappresentano dunque la lotta e l'ab89

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