Il piccolo Hans - anno XVII - n. 66 - estate 1990

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 66 estate 1990 Sergio Pinzi 5 L'animale psicoanalitico Moreno Manghi 11 e bello, doppo il morir, vivere anchora Eleonora Fiorani 21 L'animale non uomo André George Haudricourt 41 Cosa sappiamo degli Pascal Dibie animali domestici? Mare-Olivier Gonseth 61 Gli intimi, i commestibili, i selvaggi Elisabeth Copet-Rougier 103 Il cane come confine tra natura e cultura Fulvio Marane 124 Mr. Hyde: la tradizione bicamerale nell'Occidente neuropsichiatrico Antonio Faeti 141 Il gatto pazzo e l'asino sapiente Alberto Castaldi 162 D'une araignée l'autre Marisa Bulgheroni 186 Animali dal sogno al testo Annalisa Allazetta 195 Gli animali nei libri per bambini (una nota) RITRATTO DI UN MATRIMONIO Mariarosa Mancuso 206 Una donna e altri animali

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Annalisa Allazetta, Marisa Bulgheroni, Alberto Castoldi, Elisabeth Copet-Rougier, Pascal Dibie, Antonio Faeti, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Eleonora Fiorani, Mare-Olivier Gonseth, Giuliano Gramigna, André George Haudricourt, Ermanno Krumm, Mariarosa Mancuso, Moreno Manghi, Fulvio Marone, Mario Spinella, Italo Viola. redazione: Via Nino Bixio 30, 20129 Milano, tel. (02) 2043941 abbonamento annuo 1990 (4 fascicoli): lire 35.000, estero lire 52.500 e.e. postale 33235201 o assegno bancario intestato a Media Presse, Via Nino Bixio 30, 20129 Milano Registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano Coordinamento editoriale: Rodolfo Montuoro Fotocomposizione: News, via Nino Bixio 6, Milano Stampa: Tipolitografia Meina, Carugate (Milano)

·L'animale psicoanalitico L'inconscio e l'Es L'Inc, chiaro, è la mira. Come mi ha provato tra l'altro l'aneddoto seguente che racconto con rimpianto perché l'altro interprete, con me, dei suoi due episodi, non potrà dispiacersi di essere nominato. La corda si tende tra due anni molto distanti tra loro. Era il 1971 quando, modera_tore a un dibattito su Fourier alla Casa della Cultura di Milano, contestai a Italo Calvino la connotazione "impolitica" e rimpicciolita della sua antologizzazione del pensiero del grande utopista francese. Pubblicai di lì a poco il mio intervento in un articolo dal titolo Lo scarto assoluto di Fourier. Passarono, credo, quindici anni senza ulteriori occasioni di contatto. Un giorno decisi di interpellarlo al telefono circa la possibilità di un suo intervento a un convegno di psicoanalisi. Lo chiamai a Parigi dove viveva a quel tempo e, trovatolo immediatamente ne ebbi immediatamente, senza calcolo di pensieri, una breve risposta negativa: «Io sono per lo scarto assoluto». L'Inconscio è la mira, la precisione prodigiosa di un motto che colpisce nel segno, di un lapsus che ottiene lo scopo, scavalcando il tempo, divorando lo spazio. Non si prende la 5

mira. La mira precede il pensiero. E allora mi sembra di poter dire, a introdurre psicoanaliticamente questo numero 66 del «Piccolo Hans» sul soggetto-animale, che l'Jnc è l'erede dei cacciatori dell'antichità. D'altra parte non c'è solo l'Jnc. L'anima fila e tesse, come diceva GiordanoBruno. E l'Es compie il suo lavoro speciale nei due campi, del disegno e del colore, nel primo col gioco della luce e dell'ombra, della linea e del chiaroscuro, nel secondo con l'arte della gradazione, delle sfumature, e delle forme. In questo modo ci si spiega la tensione contraddittoria del nostro rapportò all'animale, l'animale che ci è estraneo e èi colora dei suoi stessi colori, è muto e ci parla dai lineamenti del comune progenitore che vengono a figurare pittoricamente la superficie dei nostri sogni più veri ed enigmatici con le stesse linee e forme del mantello dei cani, dei cavalli o delle piume d'uccello. In questo modo accade ad Atteone da cacciatore di diventare cacciato, s'incervia preda dei propri pensieri. Se l'Jnc è l'erede dei cacciatori, l'Es lo è degli animali morti. Metterli d'accordo è per noi la possibilità di non essere battuti dalla nostra stessa mira. L'Io e il soggetto Soggetto non si identifica con l'Io. Soggetto è un termine intermedio tra l'Io e le cose. Per gli antichi designava la materia. Con Descartes il soggetto viene attratto nell'Io. L'individuo si vede così potenzialmente dotato dei poteri del sovrano sulla natura e sull'uomo. È, potenzialmente, un piccolo tiranno. Ha nel mondo, come dirà Marx nella Filosofia hegeliana del diritto pubblico, una "cosa" da maneggiare a suo piacimento, 4 suo capriccio anzi. 6

Per la psicoanalisi, da Freud a Lacan, il problema è diventato quello di come "legare", imbrigliare, questa potenzialità illimitatamente distruttiva del soggetto. Freud trasforma la natura stessa in "legame" per il soggetto: lo-fa con la distinzione, presa da Breuer, di energia libera ed energia legata, lo fa ancora prevedendo un ruolo, nell'economia psichica, per l'istinto di conservazione, e, infine, ipotizzando un prolungamento, una complicazione nel cammino della vita verso la morte, nel ritorno di tutto all'inanimato. Ma in Freud, niente può impedire l'emergere, netto, senza mezze tinte della verità , 1 del Soggetto identificata nella figura del Padre primordiale. Anche Lacan ha cercato di "legare" il soggetto ''puntuale ed evanescente" di Cartesio (puntuale perché ridotto a un punto di "mira", a un mirino sul mondo, ed evanescente nel senso attivo del verbo indicante, come direbbe Husserl: il metodo della Weltvernichtung): lo fa, dunque, Lacan, ponendo all'inizio il legame dei tre prigionieri del sofisma del tempo logico che diventa alla fine il legame che tiene unito il nodo di reale, simbolico e immaginario. Questo legame ha la stessa regola in entrambi i casi. Questa regola vuole che: libero uno, liberi tutti. Se un prigioniero coglie il sofisma, tutti escono dal carcere; se uno solo dei "ronds de ficelle" si scioglie tutti si sciolgono. Nasce così una passione per il "sofisma" liberatorio e l'entusiasmo dei nuovi ''pazzi per lettera" (i ''peggiori" nel giardino di ricreazione). Questo rapporto all'universale, questa forte convinzione di poter (o dover) accedere a un segreto che introduce alla liberazione di se stessi e, nello stesso tempo, alla liberazione di tutti, coincide con il preciso programma di un soggetto psicotico. Con un'immagine che ricorre nei sogni e nei deliri di pazienti psicotici, possiamo dire che tale programma si traduce nel possesso o nella conquista di un passepartout, una chiave per tutte le porte. Ma la verità che così si fa violentemente luce è ancora quella del Padre primordiale e il passepartout è il suo godi7

mento illimitato. La visione lacaniana del soggetto è una visione antropocentrica, la «relazione dell'uomo con la natura» riducendosi alla sua «relazione con l'altro uomo», ma al centro viene a trovarsi ancora, sia pure negato, non riconosciuto, quel Padre di cui Freud aveva evidenziato lo strapotere. Ponendo al centro questo buco, il grande manque, vide centrai, che il mancato riconoscimento della funzione paterna scava nel cuore dell'essere, i soggetti singoli si trovano condannati a incarnare uno stato di appetito e a condividere con la materia svuotata e passivizzata lo stato di «figlio de la privazione e simile a l'ingordiggia irrefrenabile de la vogliente {emina». Figura in un autore come Giordano Bruno del desiderio inappagabile dell'isterica. E giungiamo così a quello che per me è un «altro» e diverso punto di partenza per il soggetto. Intendo Giordano Bruno che nei tre dialoghi italiani sulla Cena de le Ceneri, Lo spaccio de la bestia trionfante e gli Eroici furori, disegna tutto il percorso di una formazione del soggetto: uccisione e spezzettamento del corpo del padre (la Cena); riparazione dei danni del godimento paterno e restauro della figura del padre (lo Spaccio); fine dello sgomento del soggettò di fronte al godimento del padre, superamento del trauma inferto dall'Amore genitale e ritrovamento di una propria dimora in una natura liberata (Eroici furori). In Bruno la soggettività, la qualità di soggetto, viene a trovarsi dislocata presso le cose: intelletto universale, anima del mondo, dio nelle cose, a essere «soggetto» è la materia del mondo, natura piena di tutte le forme, sottratte da Bruno alla mera condizione di privazione, all'abisso di appetito genitale cui la riconduceva il detto: «Os vulvae nunquam dicit: sufficit». A un soggetto di discorso, puro «effetto di linguaggio» secondo Lacan, opponiamo così con Bruno la soggettività di 8

un Uno che è «multimodo, multifonne, multifigurato». A un soggetto di linguaggio un soggetto delle fanne. Come si può parlare del soggetto? Come si può avvicinare il soggetto? Le scuole post-freudiane hanno impiegato al riguardo dei metodi che sono riconducibili, per il soggetto, a delle fonne di seduzione. Per i kleiniani a stanare il soggetto è il fargli vedere, attraverso una modalità «penetrativa» di approccio, come si fanno i bambini. Per i lacaniani è invece l'ascolto che viene eccitato a cogliere nel «discorso dell'Altro» la smentita delle teorie che il bambino si costruisce, con l'aiuto di fabbri e artigiani (ricordiamo l'idraulico del piccolo Hans e il «ma il fabbro almeno esiste?» del bambino di Melanie Klein sgomentato dalla sua negazione dell'esistenza della cicogna) che il bambino si costruisce per gettare quel ponte che, sospeso sull'abisso della generazione e corruzione, permette, al contrario di ciò che sosteneva Lacan, un rapporto con l'altro uomo solo grazie a un rapporto con l'animale e con la natura. La "distrazione" della psicoanalisi di ogni tendenza riguardo alla fobia (o la sua sottolineatura ma solo in funzione di induzione perversa non di riconoscimento teorico), ha detenninato l'illusione che si possa dire che cos'è il soggetto a prescindere da tutta la rete, dal complesso disegno in cui il soggetto si costituisce e può essere reperito. Ma se l'inconscio è nell'apparato psichico, e l'apparato psichico è esteso, allora, come insegna Giordano Bruno, uno psicoanalista deve imparare a essere «delineatore del campo della natura» e in questo campo pennettere il ritrovamento di quel luogo d'origine del soggetto che Virginia Pinzi Ghisi ha chiamato il luogo della fobia. Che la fobia è un luogo è la novità che abbiamo apportato (non un sintomo quindi, una stravaganza nella corretta acquisizione di una identità sessuale): prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico, il luogo della fobia si colloca 9

ail'età di quattro anni ed è apparso, ma non riconosciuto, attraverso il disegno che il piccolo Hans offre al suo analista, un luogo a sezioni separate con una barriera animata dalla presenza di animali. Questo luogo è insieme il primo in cui il soggetto costituisce un pensiero proprio nella distinzione di animato e inanimato superando l'angoscia rispetto al godimento del padre e al raffronto con la propria origine, ed è anche il luogo di scelta in quanto lì si dipartono le possibilità per il soggetto, secondo il suo rapporto alla barriera che lo divide, di sviluppare una nevrosi, una psicosi, o una perversione. Il soggetto in rapporto alla clinica si configura perciò rispetto a un luogo, a una forma e a un animale. La sua individualità sorge in rapporto alla sua rappresentazione e alla delimitazione di un luogo (luogo della fobia), in rapporto alla natura (animale), in rapporto alla tecnica (entrando in contatto con ['«artefice interno» che figura, forma e intesse da dentro la materia del godimento paterno). Questi elementisi riaffacciano più volte nella vita del soggetto e il punto di vista dell'adolescenza rappresenta in un certo senso il punto di vista stesso dell'analisi, cioè un punto di vista all'indietro verso l'età fatidica dei quattro anni che permette di ripercorrere poi in avanti attraverso le costruzioni di difesa e in ordine all'oggetto della conoscenza riposto non nell'apprendere la genitalità ma in teorie sbagliate che tuttavia coinvolgono la relazione del soggetto con tutto l'universo, il successivo sviluppo della storia del soggetto. Come in un sogno recente di un mio paziente è necessario per uno psicoanalista munirsi di un microscopio cioè, come si correggeva il paziente, di un telescopio, e nel guardare quindi in direzione del pullulare microbico da cui siamo germinati cogliere la distanza regolata delle stelle e dei pianeti cui resta appesa la speranza, come direbbe Virginia Pinzi Ghisi, di sopportare un amore traumatico e sgomentante. Sergio Finzi 10

e bello, doppo il morir, vivere anchora «Non potevano avere cani, allora hanno avuto un bambino», scherniva Colouche. Meno sottilmente, il presentatore della trasmissione televisiva «Radio Londra» ironizzava con l'ospite ecologista se «per coerenza con le proprie idee si sarebbe fatto sbranare senza reagire dalle zanzare». A sterminare le specie è innanzitutto un raziocinare, un appello all'evidenza e alla necessità che nasconde nelle sue pieghe il sofisma. È più di tutto la sprezzatura acidula di questi sarcasmi, spesso calembours, a farci sentire la distanza incolmabile, compiaciuta, tra l'animale e il fondamento cartesiano del soggetto. Lo stesso che permette a Lacan di ridurre a un motto la propria cagna, Justine, e l'elefante a ironica illustrazione del primato del simbolico. La retta è la linea più breve che passa per due punti, ma le conseguenze del celebre giudizio sintetico a priori si ripercuotono fin nella foresta amazzonica, nel cui grembo, per la via più breve (quantità interamente aggiunta dalla nostra Ragione al concetto di retta, di per sé solo qualitativo), cioè penetrando e stravolgendo ogni forma naturale che si pone in mezzo, la retta si farà strada. Non a caso, come ancora notava Lacan, tra la geografia fisica e quella politica è la rete delle vie di comunicazione stradale a tracciare la mappa 11

che più rende l'idea della presa sul mondo del simbolico. Il collegare per la via più breve, penetrando l'oggetto o afferrandolo nella presa del concetto, esclude «quella forma di pensiero ondeggiante, istintivo, vagante sugli orli e le superfici, che Hermann chiama "ragione periferica" e che dovette cedere a un certo punto all'attrazione di un centro e di una centralizzazione la quale sottopose allo stesso rigore repressivo, sì repressivo, le variazioni della sessualità, come osserva Freud, e le variazioni nelle forme di intelligenza e di espressione» 1 • Esistono dunque altri tipi di intelligenza, più carezzevoli, come quella che mette per esempio in grado i lombrichi darwiniani, sensorialmente poverissimi, di farsi un'idea della forma generale di un oggetto così da poter scegliere, senza prove ed errori, il «lato dell'oggetto più confacente alla confi-. gurazione dei luoghi»2 • E appunto nel commisurare l'intelligenza alla configurazione dei luoghi, a quel «luogo della fobia» presieduto dall'animale di cui il piccolo Hans ha tracciato la mappa, consistono le teorie sessuali infantili. Che rischiano anche per Hans di essere abbandonate col cedere alla tentazione della via più breve. La linea retta è in effetti il percorso da lui fantasticato che si apre un varco nella cancellata, salta sul carro e da lì ha accesso alla piattaforma agognata del Dazio: percorso, questo, che cancella, con l'angoscia della curva e la «paura del crollo» dei cavalli, il luogo stesso della fobia. Dal saper sostenere l'angoscia della curva sul filo della paura di un crollo consegue invece la «scoperta di un nuovo oggetto», risultato di quell'istinto di ricerca che Hermann ravvisa in «quei percorsi curvilinei che possono assumere carattere di vortice, per esempio nelle migrazioni» e che si esprime <<in evasioni e fughe dall'ambiente familiare»3. E qual è questo nuovo oggetto se non il soggetto stesso reperibile nella grande S rovesciata che la doppia curva dei cavalli disegna? Attraverso percorsi sinuosi, vorticosi, paurosi, il soggetto, sempre nel timore di un crollo immediato, lavora la Cosa fino a imprimerle il marchio del proprio 12

nome. Se lo spazio freudiano non è a priori ma è una proiezione dell'apparato psichico allora l'impossibile, la necessità inesorabile, è solo una questione di «ristrettezza» mentale. «Noi realmente conosciamo troppo poco, o nulla, circa la vera natura dello spazio, così da confondere ciò che pare innaturale con !'assolutamente impossibile», scrive Gauss, uno degli inventori della geometria non euclidea, in una lettera a Bolyai. «Mi sono occupato del problema per più di trent'anni e dubito che altri vi abbia dedicato maggior attenzione, benché io non abbia mai pubblicato nulla al riguardo... Ho sviluppato tale geometria per mia personale soddisfazione». Sulla scorta delle teorie sessuali infantili, e sulla via tracciata da Freud, riferendosi a Leonardo, di un tipo di conoscenza raro e perfetto che «sfugge in forza di una particolare disposizione sia all'inibizione intellettuale sia alla coazione nevrotica a pensare», più che la riunione di scienza e verità è allora il legame di scienza e libido a venire in rilievo, nella misura in cui, come per Leonardo, ad alimentare la scienza è il proprio fantasma (vedere l'Invisibile col disegno) che lo porta, negli studi di anatomia, sul punto di inventare·una ·- nuova configurazione del cervello, nonché a inventare effettivamente un nuovo modello di piede4 • Così come le teorie sessuali infantili si fondano sull'errore che assegna un pene a tutti gli esseri viventi, abolisce la vagina e fa nascere i bambini dall'ano, allo stesso modo gli errori fecondi di Leonardo in tutte le scienze di cui si è occupato, o che addirittura attraverso l'errore ha fondato, rivelano l'insistenza con cui configura la struttura dell'oggetto indagato sul proprio fantasma. Analogamente il «non cedere» sulla credenza errata che la linea più breve che passa per due punti sia una curva fa nascere una nuova geometria: il modularsi della scienza sul principio del piacere incurva la retta, nelle geometrie non euclidee, a far sì che ora il percorso più breve non penetri nel centro a devastare ma contorni la foresta, nel disprezzo del Tempo e dell'Utile. 13

Come è possibile attenersi allora a una distinzione così rigida come quella stabilita da Koyré tra mondo del pressappoco e universo della precisione? Quest'ultimo apparirebbe, emendati l'errore e l'errare dell'intelletto, col cogito e sarebbe essenzialmente costituito dalla spaltung di scienza e fantasma che caratterizzava invece nella sua integrazione il genio del Rinascimento. Gli effetti di questa rottura non consistono solo nella produzione del soggetto vuoto, puramente formalistico dell'epistemologia, ma, come vedremo, riguardano essenzialmente il bambino e l'animale, il piccolo, nella misura in cui il luogo della fobia è revocato e le teorie sessuali infantili sono sostituite dal sapere ginecologico dell'adulto, fondato sulla penetrazione del coito5 • Se nell'oggetto non ritrovo altro che il riflesso della Ragione, così che la soggettività viene a costituire il limite di ogni conoscenza possibile, allora la conseguenza di questa appropriazione conoscitiva è che, come afferma Hegel, «la tensione fra l'universo e l'Io è risolta, perché l'universo è divenuto trasparente all'Io e l'Io è divenuto universale. L'uomo è dunque com.e un dio creatore che si trova tutto intero nella sua opera, é l'opera è la città terrestre. Il sapere che la coscienza ha di sé è il sapere ogni realtà». Un tempo l'uomo era ospite, e dal 'taglio di un albero sgorgava sangue e l'uccisione dell'animale adirava il dio che bisognava placare; dal Rischiaramento, che Kant riserva ai naturaliter maiorennes, «l'uomo, continua ancora Hegel, si aggira nel mondo come in un giardino piantato per lui». Quando «il cielo mette radice sulla terra», nel vuoto dell'Etre Supreme ridotto a ricordo la finitezza del mondo appare nella categoria dell'Utile. Nelle mirabili pagine hegeliane sull'Aufklarung l'Utile è, se così si può dire, il poco di resistenza che l'oggetto offre ancora alla negazione del «Sé universale», «un'apparenza di oggettività» destinata a dissolversi completamente nel regno della «libertà assoluta», identità immediata di soggetto e oggetto che per Hegel si incarna, spiritualmente e storicamen14

te, nel Terrore. Die Furie des Verschwindens, la furia della distruzione è il cruento pendant storico della astratta riduzione di ogni oggetto all'universale della Ragione e alla volontà pura kantiana. . L'amministrazione dell'Utile, condizione di un «corpo di funzionari che abbiano in sé il senso dell'universale», lo Stato moderno secondo Hegel, cela nel suo grembo il terrore del Signore assoluto. Così come la sanguinosa tirannia di Pietro il Grande si perpetra alle spalle di una vertiginosa burocratizzazione della Russia, che viene repentinamente europeizzata contravvenendo a una tendenza storica millenaria che aveva sempre guardato all'Oriente, allo stesso modo l'Ufficio, cellula della legislazione universale, nasconde nella vuota e astratta impersonalità del funzionario e dell'impiegato «la furia della distruzione». Di Pietro il Grande SaintSimon rimane colpito da «un tic non frequente [che] gli alterava tutta la fisionomia in modo da ispirare paura», rivelazione intermittente della sua natura barbarica, che, sotto il doppiopetto illuminato, lo porta a torturare a morte lo za-:. revic. Allo stesso modo il Maftre nascosto sotto la barra del Sapere nel lacaniano discorso dell'Università, �-1 , se può giustificare con la logica dell'Utile e del profitto1lo scempio dell'«orbe terraqueo» (il sapere scientifico, che pensa su scala universale, ridicolizza i buoni propositi dell'ecologia), manifesta la sua zampata ferocemente gratuita in un fenomeno apparentemente trascurabile. Si tratta dell'uccisione distratta e quasi inavvertita, per incidenti il fine settimana o per l'abbandono senza scrupoli lungo le strade nel periodo delle ferie estive, che in genere equivale a una condanna sicura, di piccoli animali domestici. Alla massiccia spinta all'«acculturazione», la forma moderna di «vacanza intelligente» che deve riempire il sapere vuoto e alienato dell'Ufficio, corrisponde la produzione copiosa di piccoli a. Anche quando, come notava Nietzsche, l'Ufficio traveste l'odio per le cose e per le persone da compassione per gli animali. Così a Bologna le urne del voto per la limitazione della caccia e 15

per l'abolizione delle terribili gabbie in cui sono stipati e accecati gli uccelli da richiamo sono state disertate. Così Goering all'odio razziale associava istituti per la protezione degli animali e «la carezza negligente sui capelli infantili o sulla pelle dell'animale significa che la mano, qui, può distruggere». Più che le grandi stragi razionalizzate su scala industriale, Scienza & Capitale, sono le morti gratuite degli animali domestici a noi più cari a rivelare, come un «tic» che imbestialisce i tratti, il legame occulto dell'Ufficio col godimento del padre. (Inversamente l'accorciarsi a metà del muso proteso della bestia in un sogno riconduce la castrazione alla misura del volto umano.) Se Lacan ha parlato, in riferimento alla scienza, di Verwerfung o «forclusione» del Nome-del-Padre, lo stesso meccanismo che per lui fonda la psicosi (da qui il paragone del soggetto «suturato» della scienza con quel che sarebbe la perfetta chiusura di una «paranoia riuscita»), l'insistenza sull'aspetto formalistico del discorso scientifico, nel quale la psicoanalisi reintrodurrebbe la verità come causa materiale (in questo consiste per Lacan la sua originalità nella scienza), perde di vista quella penetrazione devastante della scienza nella natura che ha attinenza con la psicosi in riferimento al godimento del padre. All'ordine imposto dalla- mathesis universalis corrisponde in effetti il caos delle forme naturali e l'intensità accecante della luce (nell'esplosione atomica) una volta che sono stati travolti i confini e i contorni delle forme e le sfumature e le gradazioni di colore che ordinano e temperano per noi il mondo naturale, strisce, macchie, ocelli che dal manto dell'animale ritroviamo nei sogni a graduare, ridurre, schermare, porre una distanza tra il soggetto e l'esplosione del godimento paterno. E questo è il libro di Pinzi Nevrosi di guerra in tempo di pace (Bari, Dedalo, 1989) e il suo viaggio di uno psicoanalista intorno a Darwin. Da questo spostamento del baricentro dall'Jnc, dove tramite un Freud «cartesiano» è posta la barriera invalicabile 16

del significante tra il soggetto e la natura, all'Es «tubero dalle escrescenze sinistre» che fa nascere il soggetto dal mondo delle forme naturali, dipende se l'animale si riduca a una caricatura disneyana o abbia un posto e una funzione nella biografia clinica del soggetto. Abbiamo visto l'animale presiedere alla strutturazione del soggetto dal luogo della fobia, che pone una barriera al godimento del padre mediante l'elaborazione delle teorie sessuali infantili, curiosità teorica del bambino per le forme viventi che viene perduta nell'accettazione della spiegazione ginecologica della scienza. La cura psicoanalitica consiste allora in una riverginazione, nel ripristino del punto di vista dell'infanzia sulla sessualità (a questo serve il cannocchiale galileiano, non più strumento di voyeurismo, nel film di Kieslowsky sul VI Comandamento, in italiano Non desiderare la donna d'altri -e ricordiamo negli episodi del suo Decalogo la presenza apparentemente marginale dell'animale morto, un piccione, una lepre, un cane, a dissolvere il luogo della fobia e a devastare l'innocenza dell'infanzia) sottratta alla vulgata del sapere ginecologico che, come la folla infoiata degli studenti nel capitolo «Le Simplegadi» dell'Ulysses, si trasmuta nei fantasmi degli animali morti6 • Come mostra il famoso episodio giovanile di Leonardo ricordato dal Vasari, l'uccisione dei piccoli animali domestici e da cortile resuscita, nelle membra sezionate e ricomposte in un macabro puzzle, «l'animalaccio molto orribile e spaventoso»: il ritratto del Padre primordiale. La sopravvivenza delle specie animali non può dunque dipendere dai buoni sentimenti (lo stesso Leonardo pur comperava uccelli in gabbia per farli fuggire) e nemmeno esclusivamente dalle proteste sociali che ingabbiano l'animale nella retorica, ma dalla resistenza del soggetto all'Ufficio (e alla Donna che, vezzeggiata come l'Ufficio, è altrettanto mortifera). Un sogno ci indica allora come dall'animale sopravvissuto il soggetto può originarsi in una modalità diversa dalla 17

«barriera del significante» che non può sfuggire, strutturalmente, a quella montata del razzismo che, prima di ogni altra, fonda l'opposizione tra i fratelli sull'opposizione assoluta uomo/animale. Il sognatore, che si raffigura nel sogno come Jules-e-Jim (ma colla fisionomia di quello alto e bruno, visto che durante il giorno in tram un barbone inveiva contro i biondi, che hanno tutte le fortune, e che perciò bisognerebbe ammazzarli), sta pedinando l'attore Bronson, il Giustiziere che entra in una biblioteca-latrina. Nascostosi, il Giustiziere sorprende alle spalle Jules-e-Jim e lo colpisce con terribili colpi alla testa. Poi un lenzuolo bianco viene gettato sul corpo e dei complici finiscono l'opera bastonandolo selvaggiamente a sangue. La «mattanza» è così compiuta. L'animale, il poeta giace morto. No, si muove ancora, e l'altra metà del sognatore, questa volta nei panni di un finto complice, si para ogni volta davanti al Giustiziere, impedendogli di vedere che là vi è ancora della vita. In questo abile schermire egli ha in mano una crema da barba. Ma quest'ultima (si ricordi la schiuma da barba all'inizio dell'Ulisse su cui si è soffermato Pinzi), in quanto non è stata sperperata nel godimento spruzzato addosso come nei lazzi carnevaleschi (questo il periodo del sogno) degli studenti, servirà a lenire la forma di vita protetta e schermata dalla furia distruggitrice. La Biblioteca non prenderà dunque fuoco (Bronson-Ronson, celebre marca di accendisigari), e il godimento del padre, se è esploso nella latrina, è comunque contenuto nei limiti di una metà (quella bionda) di cui l'altra (quella bruna) si farà carico di mantenere in vita e di curare. All'opposto del libro di Roché, nell'evitamento della Donna che porta loro separazione e morte Jules-e-Jim possono sopravvivere e rimanere uniti, senza per questo rinunciare alle donne. Così la crema da barba non spruzzata addosso impedisce che il barbone, assurgendo alla dimensione di barbaròs, realizzi la sua minaccia di morte. E il sognatore potrà ritrovare questo barbone, ma questa volta ridotto a proporzioni microscopiche, nella 18

effige della Casa Editrice Loescher impressa sull'antologia della materia che quotidianamente insegna: un barbone seduto (su una botte?) che si beve una clessidra anziché una bottiglia; e in questa ebbrezza del tempo, carpe diem, un motto accompagna l'effige: e bello, doppo il morir, vivere anchora. Soprawivendo al godimento del padre, che pure ha conosciuto ma che ha ridotto alle proporzioni microscopiche di une bévue, una bevuta, di un motto di spirito, il soggetto è ora in grado di accettare, animale-soggetto, come propria la metà animale del nome del padre, come Graf da Giraffe il piccolo Hans7 • Moreno Manghi 19

NOTE 1 S. Finzi, Una teoria audace. Darwin e l"'origine" della psicoanalisi, «Il piccolo Hans», 46, aprile-giugno 1985. 2 S. Finzi, Il posto dell'Origine nel riconoscimento della psicosi, «Il piccQlo Hans», 48, ottobre-dicembre 1985 (Ora in Nevrosi di guerra in tempo di pace, Bari, Dedalo, 1989). 3 I. Hermann, L'istinto filiale, Milano, Feltrinelli, 1974. Di Hermann cfr. anche L'Alternanza della dominazione della retta e della curva nella evoluzione della geometria e Lo psichismo e lo spazio in Parallélismes, Paris, Denoel, 1980. 4 Cfr. M. Manghi, Freud e il lascito di Leonardo, «Il piccolo Hans», 60, inverno 1988-89. Per l'integrazione di scienza e fantasma cfr. Finzi, Il posto dell'Origine..., cit. 5 Cfr. S. Finzi, Deus in rebus e Il restauro delle teorie sessuali infantili, «Il piccolo Hans», 61, primavera 1989. 6 S. Finzi, UlyssEs, dal linguaggio dell'inconscio al silenzio dell'Es, dalla direzione dell'inconscio alla forma dell'Es, seminario 1987, «Il piccolo Hans», 64, inverno 1989-90. 7 V. Finzi Ghisi, Nel disegno del rebus: manipolazione del nome del padre e deposito di una «unità di misura» nelle teorie sessuali infantili, «Il piccolo Hans», 50, aprile-giugno 1986. (Le citazioni da Hegel si riferiscono alla Fenomenologia dello spirito, cap. «Il rischiaramento o l'illuminismo», tr. di E. De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 1960, vol. 2. ) 20

L'animale non uomo Ha senso mostrare e porre domande a un gruppo d'alberi? Capisci ciò che dice quel gruppo d'alberi? Wittgenstein Ignoriamo ciò che pensa un cane. Fa della poesia, della filosofia, della magia? Che idea ha della proprietà? A.G. Haudricourt e P. Dibie l. La nozione di domesticamento C'è un rapporto di «vicinanza» e di «lontananza» tra l'uomo e gli animali, che appare nelle strutture simboliche della rappresentazione e della nominazione, e anche nei racconti mitici e nelle classificazioni ordite dalla scienza:-:"Con essi, ogni cultura stabilisce le modalità con le quali vengono pensati i rapporti tra l'uomo e le specie che appartengono al suo ambiente fisico e simbolico: così regola la propria condotta. Le classificazioni variano ovviamente nel tempo e nello spazio, ma conducono sempre a raggruppamenti di insiemi che sottintendono rapporti di vicinanza e di lontananza, implicazioni e contrapposizioni. Ciò vale dunque non solo per il pensiero mitico, ma per le moderne scienze naturali. In essi è presente la differenza dell'uomo dall'animale e dell'animale dal vegetale: sono differenze di ordine culturale, o metafisico, non certo biologico. L'animale vale come «altro», come non uomo. Questa separazione tra l'uomo e l'animale è essenziale per stabilire una gerarchia che è parte integrante del1'ordinamento del mondo. Proprio per questo vi è una continua interferenza tra l'uomo e l'animale, anche in 21

luoghi insospettati, anzi tanto più in essi. Così l'animale dice il modo in cui l'uomo pensa il mondo: attraverso di esso «il mondo ci parla e ci insegna» (D. Davvetas, 1987). Nell'animale poniamo le forze animali, pulsionali, sotterranee con cui ci identifichiamo, ma da cui insieme prendiamo le distanze. C'è dunque una continua ambivalenza. Per questo i posti devono essere rispettati e l'animale è un ritorno mitico al primordiale e lo sciamano è lì sempre nell'ombra. Con l'animale dunque il rapporto è più «pericoloso» e ambiguo: la trama simbolica si fa più fitta e i confini, ossessivamente segnati, vengono continuamente violati. Diviene allora importante il recupero dei saperi popolari e l'indagine su di essi. Così è nata l'etnoscienza. Con questo termine, ideato dalla scuola etnografica americana di Yale, che si è formata negli anni '50, si indica, originariamente, la «scienza popolare», i processi e i sistemi cognitivi, in particolare i saperi locali e le nomenclature di tali saperi tradizionali. Per la nuova etnografica infatti la cultura è «il modo particolare che ha una nuova società di classificare, principalmente mediante il linguaggio, il suo universo materiale e sociale» (W.C. Sturtevant, 1964). Siamo allora innanzitutto rimandati alla nominazione: è il nome che sta alla base del rapporto storico tra l'uomo e l'animale. La denominazione è innanzitutto un'espressione che individualizza e distingue: dice i modi diversi di vedere un animale e condensa un'esperienza. Tutti i sensi dell'uomo sono chiamati in causa, la vista, l'udito, il tatto, l'olfatto, il gusto. Il nome esprime un'apparenza, una funzione, un colore, ma anche un odore, oppure un luogo o il legame con un vegetale. Ci accorgiamo allora che le diverse civiltà hanno approcci diversi: vedono, per es. diversamente il colore di un animale. E interviene anche il comportamento degli uomini individuale e collettivo, culturale e psicologico. 22

I nuovi studi 1, inoltre, comportano un mutamento d'ottica importante: un'attenzione nuova alle piante e agli animali domestici, a tutte quelle creature che entrano nel quotidiano, che popolano il nostro immaginario o per ciò stesso, ali'opposto, subiscono un processo di marginalizzazione. Esse costituiscono una parte trascurabile dei mondi immensi delle piante e degli animali, ma ad esse si connettono la vita e la struttura delle varie società. Qui il domestico e il selvatico si separano e si richiamano in rovesciamenti e giochi di specchi. I nuovi studi sono dunque ritornati a esaminare la nozione di domesticamento, ne hanno sondato il campo e il senso, mettendone anche in questione la pertinenza. Sul concetto di domesticamento si regge la nostra rappresentazione di società e di storia. Su di essa è costruita la bella immagine delle tre tappe dell'umanità: l'uscita dal naturale e dal selvaggio, il passaggio alla cultura e insieme l'idea del progresso. Così pensavano i Greci. Dicearco la formula per la prima volta nel 300 a.e. rendendo visibile il percorso dei Greci indoeuropei, cacciatori, pastori, coltivatori. Ma si tratta solo della loro storia e della nostra, «fornaia» e «macellaia», come la definisce con voluta provocazione Jacques Barrau (1978). Il domesticamento diviene un concetto incerto e ambiguo non appena si sondano le crepe della nostra storia stessa e i percorsi di altre civiltà, sedentarie senza agricoltura e allevamento, civiltà degli orti forestali, o di nomadi per scelta, che hanno voltato le spalle alla sedentarizzazione e alle costrizioni statali. Non abbiamo dunque più la bella mitica immagine di Gordon Childe (1942) di una rivoluzione neolitica che sottrae gli uomini all'impasse dello stato selvaggio, come sosteneva Morgan, uno dei padri dell'antropologia. I mondi dei «selvaggi», le civiltà dei cacciatori e dei raccoglitori, i mondi della foresta si rivelano, con rovesciamento anche paradossale, regni dell'abbondanza e non dell'indigenza. 23

Non tengono le spiegazioni economiche del passaggio, o per lo meno non sono sufficienti. Ombre e ambiguità velano il passaggio e avvolgono il domesticamento. Ed è valida, in generale, l'avvertenza che non siamo mai troppo cauti quando ci inoltriamo in mondi «altri». Per Barrau il domesticamento può essere solo inteso come un «continuum» complesso e diverso, che dice le pluralità degli ecosistemi e delle società. Con la domesticazione infatti entriamo nella morfologia delle società attuali, per questo essa costituisce «uno dei punti più importanti dello studio degli uomini», così diceva LeroiGourhan, già nel '49. Ne sono chiare le conseguenze: la zoologia va vista con gli occhi dell'etnologo. Ed è stato difficile anche per i nuovi studi l'approccio ecosistemico e etnologico agli animali; più sconcertante, più profondo forse ma meno inquietante è stato quello con la trama vegetale. Nella domesticazione si colloca l'ambigua separazione tra il domestico e il selvatico. È una linea incerta per gli animali che la attraversano in continuazione e per l'uomo che la porta dentro se stesso: è una frontiera continuamente violata, nella quale l'uomo dice la propria differenza con il naturale e l'animale, e per ciò stesso insieme la propria parentela. Inoltre il domesticamento è il passaggio decisivo, in quanto passaggio dall'appropriazione alla produzione. È un mutamento del rapporto tra l'uomo e la natura all'interno degli ecosistemi. In questo passaggio l'uomo ha popolato le pianure, le foreste, le montagne, i deserti, di animali parenti, alleati o nemici che bisogna sedurre, costringere o allontanare: così ha ideato gli animali «buoni da mangiare», quelli «buoni per lavorare» o quelli «buoni per pensare». Dunque le società ci restituiscono, nella struttura della domesticazione, un'immagine a propria somiglianza della natura, una proiezione illusoria e rassicurante, e insie24

me dicono i livelli e le scelte tecniche: tracciano così percorsi differenziati. Inoltre, se il domesticamento è un dominio dell'uomo sull'animale, il posto che questo occupa nella società va al di là di una funzione economica e utilitaria. Come oggetto di dominazione, trasborda sul quotidiano e invade i campi della rappresentazione, delle idee, delle emozioni. Va dunque al di là di ciò che è sufficiente per trattarlo, riprodurlo e utilizzarlo. Ci si è chiesti se non sia la domesticazione che produce gli animali, ma si producano gli animali per produrre la domesticazione, cioè un dominio sulla natura e una riproduzione, sul corpo decomposto e franto dell'animale e del naturale, delle proprie strutture interne. Così almeno sembra dire la rituale spartizione del corpo animale al banchetto. Il corpo dell'animale diviene il supporto della rappresentazione simbolica: dalle diverse parti assegnate dipende il posto della persona o la divinità. Viene così istituita un'omologia tra corpo animale e corpo sociale. Oggi gli studiosi ipotizzano che inizialmente il domesticamento abbia riguardato piuttosto piante e animali con valore rituale e religioso. È tuttavia con la produzione-domesticamento del cibo che tutto cambia. Con il domesticamento produttivo si rendono più accessibili e disponibili le risorse alimentari. Ciò comporta un mutamento degli stessi animali nella loro fisiologia e psicologia. Oggi sappiamo l'importanza della produzione del cibo nelle scelte di civiltà come domesticamento del territorio: ad essa gli storici rivolgono un'attenzione nuova, a cominciare dagli archeologi della preistoria: la sua produzione sconvolge lo sviluppo delle società, si collega con la divisione dei sessi e delle classi: è per Leslie White (1959) la «prima grande rivoluzione culturale». Prendono avvio l'urbanizzazione, il tempio e il palazzo. Dobbiamo allora far riferimento ai diversi quadri originari del domesticamento: essi hanno lasciato profonde 25

tracce nella modificazione degli animali e nel comportamento degli uomini fra di loro e verso la natura, perché anche questo dice il comportamento dell'uomo con l'animale. E qui dobbiamo ritornare se vogliamo anche capire le ragioni per cui le nostre società mediterranee privilegiano l'animale nelle loro ideologie2, fanno dell'uomo cacciatore l'eroe fondatore e continuano a far risuonare il simbolismo del pastore. Così Haudricourt in un'analisi giustamente famosa del '62 ha istituito una analogia sorprendente tra il trattamento delle piante e degli animali e le relazioni sociali, distinguendo un «trattamento pastorale» e un «trattamento orticolo» dell'uomo. Ha mostrato l'analogia tra rapporti col mondo vegetale e animale e quelli degli uomini fra di loro. È stato un precursore di altri studi, come quelli di J.P. Digard (1980) e di K. Thomas (1983) che mostrano nella domesticazione l'archetipo di ogni forma di subordinazione. Sono questi gli aspetti portanti e nuovi di una lettura ecosistemica che mantiene l'orizzonte ampio di una nozione di civiltà, che non è mondo chiuso e separato, ma ecosistema appunto. Le diverse condizioni ecologiche, i diversi climi, mantelli vegetali e configurazioni territoriali, del passaggio dalla caccia e dalla raccolta all'agricoltura e all'allevamento, sono per Haudricourt alla base della contrapposizione attuale delle forme di civiltà nell'Est e nell'Ovest dell'Asia, di cui l'Europa è parte, quindi dell'Occidente e dell'Oriente. Sul piano animale siamo di fronte all'opposizione degli erbivori della steppa (bovini e ovini) e degli onnivori della foresta (cani e porci). C'è una domesticazione diversa, che segna in profondo le civiltà. E traccia, come ben sappiamo, anche la strana mappa dei consumatori e non consumatori di latte e dei latticini derivati, su cui ancora ci si interroga. Ma emerge, a mio avviso, un interrogativo più essen26

ziale da questa problematizzazione della categoria del domesticamento, che non appare più come «fatto» o «evento» del distacco dell'uomo dalla natura e l'inizio della civilizzazione. Proprio perché appare come problematico e complesso nei suoi inizi, ragioni ed esiti, su di esso stesso ci si può interrogare. La domesticazione è infatti un concetto funzionale all'animale uomo, per il suo lavoro e interesse, nei confronti degli animali, dei vegetali, delle risorse ambientali. È dunque un concetto viziato in senso antropologico oppure ha un rigore etologico di finalità dei viventi? A me sembra, questo, un interrogativo che non ci si può non porre: certo è un interrogativo filosofico che sfugge alle logiche antropologiche di lettura delle strutture delle varie civiltà. E a me sembra anche che in questa direzione vada oggi la problematica sollevata appunto dall'approccio ecosistemico, ponendoci di fronte a diverse tipologie e a diverse tecniche della domesticazione. In recenti convegni3 è stata ridiscussa criticamente la stessa nozione di domesticamento, che appare troppo connotata dall'empiria, quindi inadeguata a rendere conto delle molteplici forme del rapporto uomo-animale. Nella nozione di domesticamento coesistono infatti tre diversi tipi di relazione: una giuridica che contraddistingue le forme dell'appropriazione; una etologica che configura i rapporti di familiarizzazione reciproca; una economica che dice i tipi e i modi dell'utilizzazione4. Sono rapporti che non stanno necessariamente insieme, anzi possono escludersi. E ciascuno di questi campi si presenta assai complesso. Sono stati così formulati alcuni approcci strutturali, di tipo sincronico, che cercano di sostituire, con un sistema logico di configurazioni più complesse, la classificazione binaria centrata sulla polarità domestico/ selvaggio. 27

2. Escrementi e allattamento nella domesticazione Il nuovo approccio alla domesticazione ha reso visibili aspetti a lungo trascurati del rapporto di simbiosi tra l'uomo e l'animale: su di essi si è invece fermata l'attenzione degli studi recenti, a cominciare da quelli sugli escrementi di Haudricourt negli anni '705 a quelli più recenti relativi all'allattamento e ai riti femminili6 • 2.1 IL RUOLO DEGLI ESCREMENTI. Un ruolo importante nelle prime forme di domesticazione è svolto dagli escrementi. Gli stessi antropologi, che nella loro pratica sul campo ben lo conoscono, sono soliti fame oggetto di racconto orale, mentre raramente ne scrivono. Ciò perché la società moderna, società delle buone maniere dal Settecento in poi, come ben sappiamo dopo Norbert Elias (1969), ha eliminato dalla sua pratica e dalla sua simbologia ogni riferimento agli escrementi e li ha colpiti da interdetto. Essi costituiscono invece un elemento qualificante per comprendere i rapporti tra gli uomihi e gli animali nei diversi ecosistemi. Cani e porci sono i più antichi animali domestici. Per Sauer già i cacciatori e raccoglitori intrattengono un rapporto di familiarizzazione con cani e porci; e il cane permane in molte culture, nonostante il passaggio alla domesticazione produttiva, come un grande cacciatore. I MiaoYao delle montagne della Cina continuano a dirsi figli di un cane che ebbe in sposa la figlia dell'imperatore. Cani e porci sono anche i più antichi animali domestici dell'Estremo Oriente. I modelli in terracotta funeraria dell'epoca Han mostrano l'esistenza di latrine-porcili nel sottosuolo delle abitazioni. Ora, il cane e il porco più che onnivori sono scatovori e scatofili. Quindi si sono autoaddomesticati, attratti dagli escrementi umani, almeno così sembrerebbe. Questi animali scatovori e scatofili, dopo la preistoria, sono consu28

mati e quindi cambiano statuto. Introdotti nella società come spazzini, di cui l'uomo si nutre, vivono ai margini e hanno un basso statuto sociale. Così è avvenuto in Estremo Oriente con la prevalenza della domesticazione dei cereali e nell'America precolombiana che ha conosciuto la consumazione del cane. Anche a Nord è l'urina ad esercitare un ruolo determinante nella domesticazione eccezionale di un erbivoro, o più esattamente di un licheniforo, la renna. È avvenuto un vero e proprio incontro dell'uomo con la renna, o forse è l'inverso, trattandosi di un animale che si autoaddomestica. Così per alcuni etologi è l'uomo ad essere un «parassita della renna». È comunque un incontro che non ha cambiato le abitudini dell'uno e dell'altra. Nella Manciuria Settentrionale, nella lingua degli Orotchoni, «oro» significa renna e «tchon» uomo: dice la simbiosi per cui «il paradiso è giustamente il luogo dove l'uomo e la renna vivono in perfetta armonia» (Ivar Lissner, 1965). È invece difficile dire se l'urina abbia avuto un peso nella domesticazione degli erbivori ruminanti in Occidente; è tuttavia possibile, dato che anche attualmente il sale è utilizzato nella caccia per attirare i ruminanti selvaggi. In Occidente e nel Vicino Oriente è stato invece decisivo per la domesticazione l'uso del latte. Ciò ha rovesciato tutti i rapporti: non è l'animale ad essere attratto dall'escremento dell'uomo, ma è l'uomo che è attratto dall'escremento animale. Si comincia anzi a pensare che in queste società l'uomo ha cercato di farsi adottare dall'animale, sostituendosi al vitello e ali'agnello per bere il latte della vacca e della pecora. A tutti è nota la sacralità dei bovini in India; è meno noto che le caste sono pensate come specie zoologiche separate oppure che presso i Todas, nel sud dell'India, solo i sacerdoti possono bere il latte delle vacche sacre. In questi mondi anche il porco è trattato da erbivoro e 29

allevato: cessa di nutrirsi delle ghiande e delle faggiole della foresta. Nel mondo ebraico musulmano esso è colpito da interdetto e la consumazione della sua carne è screditante. Il cane invece non viene consumato. Il nome di entrambi questi animali suona come un insulto. 2.2 IL «MATERNAGGIO». È un allattamento insolito per noi occidentali quello rivolto agli animali. L'immagine di una donna che allatta al seno un orso, un cane o un porco (per dire solo i casi più generali), ci inquieta. Rivela una convivenza e una promiscuità cui non siamo più abituati. Rimette in questione l'alterità radicale che definisce la cultura occidentale perché in essa ha posto il principio della distanza e del superamento irreversibile dell'animalità. Mostra che tale alterità è un prodotto della cultura occidentale, non della cultura e che da essa proviene l'identificazione del femminile col naturale, il primitivo, il selvaggio. Siamo inoltre rimandati a un tabù, quello del seno femminile e della sua esclusività e a una zona di dominio che appartiene solo al femminile. Solo circostanze eccezionali rendono accettabile una rottura dell'esclusività; oppure essa fa parte dell'immaginario e della «devianza» erotica. Per lungo tempo un silenzio sospetto di viaggiatori, di esploratori, anche di etnologi, ha coperto la pratica del1'allattamento degli animali, così le notizie sono rare e disperse. Solo negli studi recenti le questioni cominciano ad essere poste e si comincia ad intravvedere l'importanza storica, economica e sociale di questa pratica. Eppure anche in Occidente c'è una tradizione che non ha mai cessato di parlare e che a tratti emerge inquietante nell'immaginario del mitico Egitto7 : è la Isis medioevale che allatta serpenti e rospi (o Vergine delle costellazioni, Rilievo dell'Ottogono di Montmorillon, Vienna, probabilmente del IX sec.) o la Isis Multimammia, dai mille se30

ni, la terra o la madre nutrice. L'allattamento è un modo o simbolo dell'aggregazione al gruppo, al clan: vale come rito di adozione familiare. Così a livello tribale, in un rito di adozione che ancora si ripete, l'estraneo compie simbolicamente il gesto di poppare al seno di una donna anziana: ciò per essere «adottato» appunto e far parte della comunità. Ora, nella cultura occidentale accettiamo solo i miti in cui l'uomo è allattato daglì animali. Sono miti delle origini, scene primitive, punti di partenza di una naturalità che trapassa poi nella cultura. Sono anche immagini o rappresentazioni idilliche e armoniche del rapporto uomo-animali, che è invece contrassegnato dalla differenza e dalla opposizione. Ma, in altre culture, in altri ecosistemi, le cose stanno diversamente: qui sono le donne che allattano gli animali. Anzi è questa la forma specifica della domesticazione, che gli etnologi chiamano «maternaggio». Con questo termine intendono la cura che una madre dà ai figli. E in alcune culture dell'America del Sud, gli animali domestici sono nutriti al seno o dalla bocca con cibi premasticati. Quest'ultimo sistema è l'unico possibile con i giovani uccelli. Così fanno gli Indios dell'Amazzonia, per esempio. In Oceania sono il cane e il porco che ancora oggi vengono maternati. In queste culture dunque domesticare significa adottare, inserire nella famiglia o nel clan l'animale che è fatto oggetto di tante cure. Non c'è una finalità economica né di consumo. Infatti gli animali, che vengono cacciati e consumati, rimangono al di fuori del mondo umano e della «familiarizzazione». Tracce di questa antica forma di domesticazione sono presenti nell'allattamento dei cani in Australia. Qui gli Jankuntjara, un popolo di cacciatori e raccoglitori, conoscevano una parziale domesticazione dei dingo: oltre ai dingo, allattavano opossum e canguri. Ora allattano i ca31

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